
Prima di iniziare la descrizione della chiesa così come un
lauretano poteva scorgerla alla vigilia dell’incendio del 1799, sono necessarie
due premesse. La prima: questo testo è un estratto – sintetico al massimo – di una
ampia ricerca che ho stilato nel 1998, al tempo della redazione del giornale
Segno dei Tempi e che è rimasta e rimarrà inedita per motivi facilmente
intuibili. Seconda premessa: le fonti sono recuperabili in vari archivi. Oltre
le notizie del Guadagni, uno scrittore del XVII secolo, e del Remondini che
scriveva a metà del XVIII secolo, ho attinto alla Rivela del 1753 conservata
all’Archivio di Stato di Napoli e a quanto è custodito nell’Archivio Diocesano,
soprattutto i Registri delle Visite Pastorali e la Platea del Carmine. Quest’ultimo
testo è anonimo solo in apparenza. L’attenta lettura che ne ho fatto me ne fa
attribuire con certezza massima la redazione a Casimiro Bonavita, cancelliere
del Comune di Lauro e testimone dei fatti dell’aprile 1799. E adesso si può
iniziare davvero, non senza aver fatto i complimenti a Carmine D’Anna e ai
promotori del restauro!
Accennavo
al venerdì 17 luglio del 1615 e a degli uomini in attesa lì nei pressi dell’attuale
Piazza di Lauro. Ricordiamoli questi nostri antenati: Giovanni Caropresio,
Geronimo Cappellano, Pietro Sperandeo, Marcello Santaniello, Decio Vivenzio,
Matteo Di Bartolo e Mario Bonavita. Sono costoro ad aver diretto in prima
persona i lavori di costruzione della Chiesa del Carmine nell’attuale piazza di
Lauro. La loro iniziativa cambiò definitivamente il volto di Lauro: scompariva
l’antica “Piazza” che si apriva davanti alla chiesa di San Barbato e con essa l’orto
di alberi e viti e veniva a crearsi l’attuale
insula del Carmine. Nasceva così un cantiere vasto che si addossava alle case
dei Fusco e dei Vallone e che si protrasse per diversi anni.
In
ogni caso nel 1615 il vescovo Lancellotti entra nella Chiesa “noviter
constructam prope forum dictae terrae”, cioè da poco costruita presso la piazza
di Lauro. A volerla erano stati i circa cento membri della Confraternita del
Carmine, nata al tempo di Fabrizio Gallo, vescovo dal 1585 al 1614,
rappresentati da quei nomi poco prima scritti. Imprecisa è quindi la notizia di
Guadagni che vuole la chiesa costruita nel 1622. Probabilmente nel 1622 la
chiesa è definitivamente abbellita anche se otto anni prima già essa funzionava
perchè già dotata dell’occorrente per la celebrazione delle messe.
ome era questa chiesa? Indiscutibilmente bella
a leggere la descrizione dell’anonimo Amministratore del 1806 ma che in realtà
è Bonavita, come ho spiegato nella premessa.
Chi
entrava in chiesa doveva prima di tutto varcare la “porta grande” del tempio. E’
Guadagni a descriverci la porta antica; sia essa che il pulpito erano “tutti di
noce d’intaglio peregrino, così minuto e rilevato di statue e fogliame che
ognuno che li vede resta stupefatto”. Manufatti di noce e di intaglio secondo l’uso
straniero (questo era nel ‘600 il significato del termine “peregrino”) con
motivi vegetali e statue. Per farci un’idea della bellezza di quella porta
antica dovremmo osservare la Porta di San Bartolomeo a Moschiano. Chi realizzò la
porta e il pulpito del Carmine? Guadagni tace il nome; certamente non va
dimenticato il probabile apporto delle maestranze locali dato che Lauro era la
patria del famoso Capoccia, lo scultore Giacomo Bonavita, capostipite di una
fortunatissima dinastia di artisti del legno.
Varcata
la porta l’occhio si sarebbe concentrato sull’altare maggiore. Al di sopra di
esso – è ancora Guadagni a parlare – si elevava “ la icona, opera magnifica di
Giovanni Battista Verde, il primo scultore de’ nostri tempi, e di Giacomo
Capocchia di Lauro, di non inferiore eccellenza”. Notizia non trascurabile: la
chiesa del Carmine, eretta col contributo di circa cento lauretani, vide il
concorso pieno e attivo di Lauretani nella stessa costruzione e decorazione.
Questa
icona tutta di legno (“antichissima cona di legno” la chiama il Bonavita) rappresentava – secondo la Platea del XIX secolo
la Madonna del Carmine.
E
alzando gli occhi si sarebbe ammirato il vasto soffitto dipinto nel 1776 da
Angelo Mozzillo. A commissionargli l’opera fu l’amministratore del tempo, Gian
Domenico Frezzaroli, che più volte ho citato nei miei post e su cui perciò non
mi trattengo. Per Mozzillo quegli anni furono anche anni lauretani; secondo lo
storico Domenico Corcione, il pittore di Afragola il 16 luglio 1766 aveva
sposato una donna di Lauro, Teresa Fiorino.
Come
poteva essere questo soffitto? Bello, indiscutibilmente bello come tutti i
soffitti che ci sono giunti nelle nostre chiese. Pensiamo a Pago (dove Mozzillo
dipinge per commissione dei Narni Mancinelli la Madonna di Costantinopoli) o a
Fontenovella (qui a lavorare nel 1714 è il Mottola) o alle Rocchettine (ancora
Mozzillo) o a Taurano e Quindici. Come vedete tutti i nostri soffitti decorati sono
del XVIII secolo; solo uno, del XVII secolo, è a cassettoni (quello di San
Giovanni). La datazione così coeva è ovvia: le frequenti eruzioni vesuviane,
dal 1631 in poi, erano state così violente da far cadere i soffitti. Il XVIII
secolo segnò un periodo di tregua dai danni del Vesuvio e perciò si passò a una
loro migliore decorazione.
Quanto
ho scritto finora (a parte la datazione del Mozzillo) era già noto. Meno noto è
sapere come fosse la struttura architettonica della chiesa. A quanto pare essa
era identica ad oggi: stessa ampiezza e probabilmente stessa altezza. Dieci
cappelle, come oggi, cinque per lato. Entrando quindi dalla “Porta grande” un
lauretano del 1799 ci avrebbe così descritto la Chiesa:
Lato
destro della porta:
1.
Cappella dei morti, così detta per un quadro del Purgatorio in esso
rappresentato. Forse è la rovinatissima tela custodita in sagrestia: la Madonna
del Carmine protesa verso le anime purganti. Attualmente vi è la tela dell’Assunta.
2.
Cappella di San Filippo. Sotto gli occhi della statua di San Filippo (in legno)
si riuniva la plurisecolare confraternita dei Sacerdoti. Successivamente, nel
XIX secolo, la Confraternita si stabilì nella stanza al di sopra dell’attuale
Sagrestia. La confraternita di San Filippo per quanto mi risulta è stata
sciolta dal parroco Leonardo Falco nel 2008.
3.
Cappella di Sant’Antonio. Al centro la statua del Santo (è l’attuale statua?);
al lato destro della stessa una piccola statua di san Francesco Saverio e al
lato sinistro, sempre della stessa, una statua di san Michele, pur essa
piccola. Attualmente vi è la statua di Santa Margherita. In realtà la stata
attuale era una Santa Filomena. Con un discutibilissimo tocco di fantasia don
Rocco in un giorno d’estate del 1992 la “ribattezzò” intitolandola a santa
Margherita e sostituendovi la palma del martirio con un crocefisso. Alle
orecchie di quanti gli fecero notare il gesto arbitrario risuona ancora un
assordante “figli cari”, segno per più eloquente dell’antico Roma locuta causa
finita.
4.
La quarta cappella era vuota. Come oggi era occupata dalla “porta piccola” che
dava accesso all’attiguo vicoletto.
5. L’ultima
cappella era dedicata all’Immacolata. Anche qui non sono in grado di dire se
sia l’attuale statua, maltrattata - secondo il mio pensiero profano – da un
discutibilissimo restauro compiuto ai tempi del parroco Don Rocco, in quanto
condotto senza informazioni filologiche e indagini su eventuali strati nascosti
del manufatto.
Entrando
invece dal lato sinistro della porta si sarebbe presentata la seguente
situazione:
1.
Cappella di Sant’Antonio abate, attualmente occupata da una molto mediocre tela
realizzata nel 1998 che vuole imitare – senza assolutamente riuscirci - il bell’affresco
battesimale dell’abbazia di Sant’Angelo in Taurano.
2.
Cappella di San Giuseppe. Qui aveva sede la Confraternita omonima fino a tutto
il 1799. Attualmente è ancora intitolata al santo custode di Nazareth. Purtroppo
anche questa meravigliosa statua, probabilmente la stessa antecedente l’incendio
del 1799, è stata vittima nell’agosto del 1992 della arbitraria scellerataggine
di don Rocco che la affidò a un imbianchino perché la ravvivasse nei colori.
Voglio essere chiaro: venero don Rocco ma ciò non toglie che egli sia stato
molto sbarazzino con l’arte. Un esempio è quanto successo alla Collegiata: non
sappiamo nulla di come essa era, degli arredi sacri ivi custoditi ecc. Un uomo
a mio dire si venera anche mettendo in luce i lati controversi: chi non li ha?
In ogni caso ho davanti agli occhi lo sguardo confuso e interdetto di mons.
Tramma nello scorgere lo scempio commesso su San Giuseppe.
3. Preceduta
dal pulpito del Bonavita, la terza cappella era dedicata a san Lauro. Chiarisco
una cosa: il san Lauro venerato in paese non è il compagno di martirio di san
Floro. Il culto di san Lauro, attualmente resistente solo a Quindici, arriva a
Lauro a metà del XVII secolo per iniziativa dei Lancellotti che ne ricevono
anche il capo, depositandolo nel convento agostiniano sopra Santa Maria (poi
lazzaretto e cimitero) nei pressi dell’attuale Carcere. Chi era questo san
Lauro? Un “corpo santo “ o un “santo battezzato”. Mi spiego: un potente
feudatario o un vescovo o una comunità chiedeva a Roma il corpo di un martire
delle catacombe. Un prete addetto lo faceva estrarre e a suo piacimento gli
imponeva un nome, senza ovviamente accertarsi se fosse realmente un martire o
chissà… un antico romano! (Chi fosse incuriosito legga le erudite pagine dell’abate
Mabillon che nel 1698 pubblicava in modo anonimo la Eusebii Romani ad Theophilum
Gallum epistola de cultu sanctorum ignotorum). E a proposito: sia il capo di
san Lauro sia il corpo di san Desiderio (custodito nella chiesa delle
Rocchettine) dopo il 1799 furono affidati a delle famiglie di Lauro. Nel corso
del XIX secolo però se ne perse notizia; probabilmente i discendenti di queste
famiglie trovandosi delle ossa in casa – senza sapere di che si trattasse – se ne
liberarono. Dove? Resta un mistero. O chissà,… le posero in un luogo facilmente
indovinabile.
Dopo
il 1799 la cappella di San Lauro scomparve; il muro a cui era addossato l’altare
fu sfondato e si costruì un ampio cappellone che resistette fino agli anni ’60 del
XX secolo. Don Rocco preferì chiudere il cappellone, guadagnandovi un ulteriore
stanza per la sagrestia e pensando di mettervi una “artistica” vetrata
raffigurante il Sacro Cuore. Era così artistica che lo stesso parroco in un
attimo di rinsavimento confessò che altro non era se non “un ammasso di vetrume
colorato”. Leonardo Falco per fortuna la soppresse mettendovi l’imponente Sacro
Cuore di fine XIX secolo, un tempo in Collegiata, e che don Rocco invece aveva
preferito “depositare” in una topaia a fianco della sagrestia della Pietà.
La
quarta cappella era come adesso: Organo al piano superiore mentre attraverso l’inferiore
si accedeva alla sagrestia.
La
quinta cappella era infine dedicata a Santa Margherita. Anche qui una statua di
legno. (Non mi esprimo se la santa Margherita di questa cappella sia l’attuale
del secondo altare a destra. Sarebbe da ridere se fosse la stessa a pensare
alle trasformazioni che quella statua ha dovuto assumere nei secoli!).
Potrei
fermarmi ma aggiungo solo alcune considerazioni, con un appello che spero
possiate far vostro.
Intanto
una cosa chiara: la chiesa fu voluta dai Lauretani ed era amministrata da loro
attraverso l’elezione dei Maestri. Una elezione pubblica, che si teneva ancora
nel XIX secolo in piazza, ad agosto, con la partecipazione di tutto il popolo.
Anche se la chiesa del Carmine già dopo il 1747 divenne sede delle due
parrocchie di Santa Margherita e San Barbato, tuttavia conservò il suo
carattere di chiesa cittadina. Quando fu inaugurata all’indomani dell’incendio,
nel 1826, si sottolineò con fermezza questo fatto: il parroco era solo un
ospite mentre il resto veniva gestito dai Lauretani.
Ovviamente
i rivolgimenti politici e l’evolversi della disciplina canonica e civile ha
portato a evoluzioni drastiche per cui l’antico carattere “ricettizio” della
chiesa è ormai scomparso dal 1867 in poi. Resta però un dato: con la scomparsa
dell’antico Istituto giuridico è anche aumentato il disinteresse della gente
verso il luogo sacro. Le trasformazioni avvenute sotto il parrocato di don
Rocco ad esempio si sono svolte sotto la più completa indifferenza della
popolazione, pur se è vero che il terremoto colpì tutti e tutti avevano i
propri guai. Perciò il restauro della porta ha un significato importante:
volesse il cielo tornassimo a interessarci della nostra Chiesa.
E
infine: cosa rimane del periodo antecedente il 30 aprile 1799, giorno dell’incendio
da parte dei francesi? E quali danni produsse? I danni furono certamente
notevoli: ad ore 4 di notte, cioè verso le 23 del 30 aprile crollò tutto il
soffitto ormai divenuto completamente preda del fuoco. Resta però poco chiaro
un fatto: pur essendo crollato tutto, è in questa chiesa del Carmine che vennero
sepolte le vittime dell’incendio. Precisamente avanti all’altare, nella fossa
già dei Preti di San Filippo. Fu don Rocco a vederne i resti, rinchiudendoli a
metà degli anni ’80 in una cassettina e murandola per sempre. Peccato che non
chiamò un fotografo o interpellò qualcuno per indagare meglio.
La
cosa più importante però è capire cosa resta del periodo antecedente il 1799.
Forse qualche statua. Sicuramente anche alcuni reperti in marmo. E anzitutto la
lapide mortuaria a destra di chi entra. Raffigura a mio dire due preti; non è
XIX secolo, questo è chiaro. Dato per certo – secondo l’inedito Bonavita – che la
Chiesa aveva soltanto la sepoltura dei preti e quella della Congrega di San Giuseppe, la
lapide murata al fianco della porta è una reliquia dell’antica chiesa. Più
ancora sono reliquie le due acquasantiere con le imprese dei Narni Mancinelli.
Una è in piazza, divenuta “fontanella pubblica” per una decisone stramba e
arbitraria di don Rocco che la consegnò all’amministrazione Ferraro durante i
restauri della piazza. Sento la grave responsabilità, certamente esponendomi a
delle critiche, di dirvi: stiamoci attenti. STIAMOCI ATTENTI. E’ impensabile
continuare a vederla vittima delle pallonate dei ragazzi, vittima del caldo e del
freddo, vittima della nostra indifferenza. E’ tutto ciò che ci rimane di un
tempo di amore e di passione che voglia il cielo, torni ad essere vivo e a
infiammarsi già da oggi, con il restauro della porta della chiesa.