sabato 24 novembre 2018

Il restauro della Porta della chiesa di Lauro 2/ Un appello per lei, infirmata et vulnerata.



Prima di iniziare la descrizione della chiesa così come un lauretano poteva scorgerla alla vigilia dell’incendio del 1799, sono necessarie due premesse. La prima: questo testo è un estratto – sintetico al massimo – di una ampia ricerca che ho stilato nel 1998, al tempo della redazione del giornale Segno dei Tempi e che è rimasta e rimarrà inedita per motivi facilmente intuibili. Seconda premessa: le fonti sono recuperabili in vari archivi. Oltre le notizie del Guadagni, uno scrittore del XVII secolo, e del Remondini che scriveva a metà del XVIII secolo, ho attinto alla Rivela del 1753 conservata all’Archivio di Stato di Napoli e a quanto è custodito nell’Archivio Diocesano, soprattutto i Registri delle Visite Pastorali e la Platea del Carmine. Quest’ultimo testo è anonimo solo in apparenza. L’attenta lettura che ne ho fatto me ne fa attribuire con certezza massima la redazione a Casimiro Bonavita, cancelliere del Comune di Lauro e testimone dei fatti dell’aprile 1799. E adesso si può iniziare davvero, non senza aver fatto i complimenti a Carmine D’Anna e ai promotori del restauro!

Accennavo al venerdì 17 luglio del 1615 e a degli uomini in attesa lì nei pressi dell’attuale Piazza di Lauro. Ricordiamoli questi nostri antenati: Giovanni Caropresio, Geronimo Cappellano, Pietro Sperandeo, Marcello Santaniello, Decio Vivenzio, Matteo Di Bartolo e Mario Bonavita. Sono costoro ad aver diretto in prima persona i lavori di costruzione della Chiesa del Carmine nell’attuale piazza di Lauro. La loro iniziativa cambiò definitivamente il volto di Lauro: scompariva l’antica “Piazza” che si apriva davanti alla chiesa di San Barbato e con essa l’orto di alberi e viti  e veniva a crearsi l’attuale insula del Carmine. Nasceva così un cantiere vasto che si addossava alle case dei Fusco e dei Vallone e che si protrasse per diversi anni.
In ogni caso nel 1615 il vescovo Lancellotti entra nella Chiesa “noviter constructam prope forum dictae terrae”, cioè da poco costruita presso la piazza di Lauro. A volerla erano stati i circa cento membri della Confraternita del Carmine, nata al tempo di Fabrizio Gallo, vescovo dal 1585 al 1614, rappresentati da quei nomi poco prima scritti. Imprecisa è quindi la notizia di Guadagni che vuole la chiesa costruita nel 1622. Probabilmente nel 1622 la chiesa è definitivamente abbellita anche se otto anni prima già essa funzionava perchè già dotata dell’occorrente per la celebrazione delle messe.
 ome era questa chiesa? Indiscutibilmente bella a leggere la descrizione dell’anonimo Amministratore del 1806 ma che in realtà è Bonavita, come ho spiegato nella premessa.
Chi entrava in chiesa doveva prima di tutto varcare la “porta grande” del tempio. E’ Guadagni a descriverci la porta antica; sia essa che il pulpito erano “tutti di noce d’intaglio peregrino, così minuto e rilevato di statue e fogliame che ognuno che li vede resta stupefatto”. Manufatti di noce e di intaglio secondo l’uso straniero (questo era nel ‘600 il significato del termine “peregrino”) con motivi vegetali e statue. Per farci un’idea della bellezza di quella porta antica dovremmo osservare la Porta di San Bartolomeo a Moschiano. Chi realizzò la porta e il pulpito del Carmine? Guadagni tace il nome; certamente non va dimenticato il probabile apporto delle maestranze locali dato che Lauro era la patria del famoso Capoccia, lo scultore Giacomo Bonavita, capostipite di una fortunatissima dinastia di artisti del legno.
Varcata la porta l’occhio si sarebbe concentrato sull’altare maggiore. Al di sopra di esso – è ancora Guadagni a parlare – si elevava “ la icona, opera magnifica di Giovanni Battista Verde, il primo scultore de’ nostri tempi, e di Giacomo Capocchia di Lauro, di non inferiore eccellenza”. Notizia non trascurabile: la chiesa del Carmine, eretta col contributo di circa cento lauretani, vide il concorso pieno e attivo di Lauretani nella stessa costruzione e decorazione.
Questa icona tutta di legno (“antichissima cona di legno” la chiama il Bonavita)  rappresentava – secondo la Platea del XIX secolo la Madonna del Carmine.
E alzando gli occhi si sarebbe ammirato il vasto soffitto dipinto nel 1776 da Angelo Mozzillo. A commissionargli l’opera fu l’amministratore del tempo, Gian Domenico Frezzaroli, che più volte ho citato nei miei post e su cui perciò non mi trattengo. Per Mozzillo quegli anni furono anche anni lauretani; secondo lo storico Domenico Corcione, il pittore di Afragola il 16 luglio 1766 aveva sposato una donna di Lauro, Teresa Fiorino.
Come poteva essere questo soffitto? Bello, indiscutibilmente bello come tutti i soffitti che ci sono giunti nelle nostre chiese. Pensiamo a Pago (dove Mozzillo dipinge per commissione dei Narni Mancinelli la Madonna di Costantinopoli) o a Fontenovella (qui a lavorare nel 1714 è il Mottola) o alle Rocchettine (ancora Mozzillo) o a Taurano e Quindici. Come vedete tutti i nostri soffitti decorati sono del XVIII secolo; solo uno, del XVII secolo, è a cassettoni (quello di San Giovanni). La datazione così coeva è ovvia: le frequenti eruzioni vesuviane, dal 1631 in poi, erano state così violente da far cadere i soffitti. Il XVIII secolo segnò un periodo di tregua dai danni del Vesuvio e perciò si passò a una loro migliore decorazione.
Quanto ho scritto finora (a parte la datazione del Mozzillo) era già noto. Meno noto è sapere come fosse la struttura architettonica della chiesa. A quanto pare essa era identica ad oggi: stessa ampiezza e probabilmente stessa altezza. Dieci cappelle, come oggi, cinque per lato. Entrando quindi dalla “Porta grande” un lauretano del 1799 ci avrebbe così descritto la Chiesa:
Lato destro della porta:
1. Cappella dei morti, così detta per un quadro del Purgatorio in esso rappresentato. Forse è la rovinatissima tela custodita in sagrestia: la Madonna del Carmine protesa verso le anime purganti. Attualmente vi è la tela dell’Assunta.
2. Cappella di San Filippo. Sotto gli occhi della statua di San Filippo (in legno) si riuniva la plurisecolare confraternita dei Sacerdoti. Successivamente, nel XIX secolo, la Confraternita si stabilì nella stanza al di sopra dell’attuale Sagrestia. La confraternita di San Filippo per quanto mi risulta è stata sciolta dal parroco Leonardo Falco nel 2008.  
3. Cappella di Sant’Antonio. Al centro la statua del Santo (è l’attuale statua?); al lato destro della stessa una piccola statua di san Francesco Saverio e al lato sinistro, sempre della stessa, una statua di san Michele, pur essa piccola. Attualmente vi è la statua di Santa Margherita. In realtà la stata attuale era una Santa Filomena. Con un discutibilissimo tocco di fantasia don Rocco in un giorno d’estate del 1992 la “ribattezzò” intitolandola a santa Margherita e sostituendovi la palma del martirio con un crocefisso. Alle orecchie di quanti gli fecero notare il gesto arbitrario risuona ancora un assordante “figli cari”, segno per più eloquente dell’antico Roma locuta causa finita.  
4. La quarta cappella era vuota. Come oggi era occupata dalla “porta piccola” che dava accesso all’attiguo vicoletto.
5. L’ultima cappella era dedicata all’Immacolata. Anche qui non sono in grado di dire se sia l’attuale statua, maltrattata - secondo il mio pensiero profano – da un discutibilissimo restauro compiuto ai tempi del parroco Don Rocco, in quanto condotto senza informazioni filologiche e indagini su eventuali strati nascosti del manufatto.
Entrando invece dal lato sinistro della porta si sarebbe presentata la seguente situazione:
1. Cappella di Sant’Antonio abate, attualmente occupata da una molto mediocre tela realizzata nel 1998 che vuole imitare – senza assolutamente riuscirci - il bell’affresco battesimale dell’abbazia di Sant’Angelo in Taurano.
2. Cappella di San Giuseppe. Qui aveva sede la Confraternita omonima fino a tutto il 1799. Attualmente è ancora intitolata al santo custode di Nazareth. Purtroppo anche questa meravigliosa statua, probabilmente la stessa antecedente l’incendio del 1799, è stata vittima nell’agosto del 1992 della arbitraria scellerataggine di don Rocco che la affidò a un imbianchino perché la ravvivasse nei colori. Voglio essere chiaro: venero don Rocco ma ciò non toglie che egli sia stato molto sbarazzino con l’arte. Un esempio è quanto successo alla Collegiata: non sappiamo nulla di come essa era, degli arredi sacri ivi custoditi ecc. Un uomo a mio dire si venera anche mettendo in luce i lati controversi: chi non li ha? In ogni caso ho davanti agli occhi lo sguardo confuso e interdetto di mons. Tramma nello scorgere lo scempio commesso su San Giuseppe.
3. Preceduta dal pulpito del Bonavita, la terza cappella era dedicata a san Lauro. Chiarisco una cosa: il san Lauro venerato in paese non è il compagno di martirio di san Floro. Il culto di san Lauro, attualmente resistente solo a Quindici, arriva a Lauro a metà del XVII secolo per iniziativa dei Lancellotti che ne ricevono anche il capo, depositandolo nel convento agostiniano sopra Santa Maria (poi lazzaretto e cimitero) nei pressi dell’attuale Carcere. Chi era questo san Lauro? Un “corpo santo “ o un “santo battezzato”. Mi spiego: un potente feudatario o un vescovo o una comunità chiedeva a Roma il corpo di un martire delle catacombe. Un prete addetto lo faceva estrarre e a suo piacimento gli imponeva un nome, senza ovviamente accertarsi se fosse realmente un martire o chissà… un antico romano! (Chi fosse incuriosito legga le erudite pagine dell’abate Mabillon che nel 1698 pubblicava in modo anonimo la Eusebii Romani ad Theophilum Gallum epistola de cultu sanctorum ignotorum). E a proposito: sia il capo di san Lauro sia il corpo di san Desiderio (custodito nella chiesa delle Rocchettine) dopo il 1799 furono affidati a delle famiglie di Lauro. Nel corso del XIX secolo però se ne perse notizia; probabilmente i discendenti di queste famiglie trovandosi delle ossa in casa – senza sapere di che si trattasse – se ne liberarono. Dove? Resta un mistero. O chissà,… le posero in un luogo facilmente indovinabile.
Dopo il 1799 la cappella di San Lauro scomparve; il muro a cui era addossato l’altare fu sfondato e si costruì un ampio cappellone che resistette fino agli anni ’60 del XX secolo. Don Rocco preferì chiudere il cappellone, guadagnandovi un ulteriore stanza per la sagrestia e pensando di mettervi una “artistica” vetrata raffigurante il Sacro Cuore. Era così artistica che lo stesso parroco in un attimo di rinsavimento confessò che altro non era se non “un ammasso di vetrume colorato”. Leonardo Falco per fortuna la soppresse mettendovi l’imponente Sacro Cuore di fine XIX secolo, un tempo in Collegiata, e che don Rocco invece aveva preferito “depositare” in una topaia a fianco della sagrestia della Pietà.
La quarta cappella era come adesso: Organo al piano superiore mentre attraverso l’inferiore si accedeva alla sagrestia.
La quinta cappella era infine dedicata a Santa Margherita. Anche qui una statua di legno. (Non mi esprimo se la santa Margherita di questa cappella sia l’attuale del secondo altare a destra. Sarebbe da ridere se fosse la stessa a pensare alle trasformazioni che quella statua ha dovuto assumere nei secoli!).
Potrei fermarmi ma aggiungo solo alcune considerazioni, con un appello che spero possiate far vostro.
Intanto una cosa chiara: la chiesa fu voluta dai Lauretani ed era amministrata da loro attraverso l’elezione dei Maestri. Una elezione pubblica, che si teneva ancora nel XIX secolo in piazza, ad agosto, con la partecipazione di tutto il popolo. Anche se la chiesa del Carmine già dopo il 1747 divenne sede delle due parrocchie di Santa Margherita e San Barbato, tuttavia conservò il suo carattere di chiesa cittadina. Quando fu inaugurata all’indomani dell’incendio, nel 1826, si sottolineò con fermezza questo fatto: il parroco era solo un ospite mentre il resto veniva gestito dai Lauretani.
Ovviamente i rivolgimenti politici e l’evolversi della disciplina canonica e civile ha portato a evoluzioni drastiche per cui l’antico carattere “ricettizio” della chiesa è ormai scomparso dal 1867 in poi. Resta però un dato: con la scomparsa dell’antico Istituto giuridico è anche aumentato il disinteresse della gente verso il luogo sacro. Le trasformazioni avvenute sotto il parrocato di don Rocco ad esempio si sono svolte sotto la più completa indifferenza della popolazione, pur se è vero che il terremoto colpì tutti e tutti avevano i propri guai. Perciò il restauro della porta ha un significato importante: volesse il cielo tornassimo a interessarci della nostra Chiesa.
E infine: cosa rimane del periodo antecedente il 30 aprile 1799, giorno dell’incendio da parte dei francesi? E quali danni produsse? I danni furono certamente notevoli: ad ore 4 di notte, cioè verso le 23 del 30 aprile crollò tutto il soffitto ormai divenuto completamente preda del fuoco. Resta però poco chiaro un fatto: pur essendo crollato tutto, è in questa chiesa del Carmine che vennero sepolte le vittime dell’incendio. Precisamente avanti all’altare, nella fossa già dei Preti di San Filippo. Fu don Rocco a vederne i resti, rinchiudendoli a metà degli anni ’80 in una cassettina e murandola per sempre. Peccato che non chiamò un fotografo o interpellò qualcuno per indagare meglio.
La cosa più importante però è capire cosa resta del periodo antecedente il 1799. Forse qualche statua. Sicuramente anche alcuni reperti in marmo. E anzitutto la lapide mortuaria a destra di chi entra. Raffigura a mio dire due preti; non è XIX secolo, questo è chiaro. Dato per certo – secondo l’inedito Bonavita – che la Chiesa aveva soltanto la sepoltura dei preti  e quella della Congrega di San Giuseppe, la lapide murata al fianco della porta è una reliquia dell’antica chiesa. Più ancora sono reliquie le due acquasantiere con le imprese dei Narni Mancinelli. Una è in piazza, divenuta “fontanella pubblica” per una decisone stramba e arbitraria di don Rocco che la consegnò all’amministrazione Ferraro durante i restauri della piazza. Sento la grave responsabilità, certamente esponendomi a delle critiche, di dirvi: stiamoci attenti. STIAMOCI ATTENTI. E’ impensabile continuare a vederla vittima delle pallonate dei ragazzi, vittima del caldo e del freddo, vittima della nostra indifferenza. E’ tutto ciò che ci rimane di un tempo di amore e di passione che voglia il cielo, torni ad essere vivo e a infiammarsi già da oggi, con il restauro della porta della chiesa.


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