lunedì 20 gennaio 2020

Lauro e Umberto Nobile: nuove luci dopo 135 anni…


Ed eccoci a festeggiare il 135° compleanno del generale Nobile ricordando quel 21 gennaio del 1885, il giorno dopo la festa di Lauro. Don Rocco, rileggendo il carme che il Del Cappellano compose nel 1653 (anno in cui san Sebastiano fu eletto patrono del Vallo di Lauro) e giocando con quelle parole, amava scorgervi un felice accostamento di nomi, leggendovi quasi una profezia: O patria, es felix…  sors tibi diva favet; … Nobilis … tradet: Sei davvero felice o Lauro, la sorte divina ti è propizia… Dio ti dona di essere Nobile.
Per festeggiare quest’evento voglio regalare a voi un appunto sulle nuove notizie che gli archivi 
hanno svelato sul rapporto tra Nobile e Lauro. Lo scritto è lungo e purtroppo una ulteriore sintesi lo renderebbe incomprensibile. Fa freddo per fortuna: prendetela come una lettura da caminetto. E allora iniziamo.

Il già noto: il misterioso incendio del 21 gennaio 1885

“Nacqui nel 1885, in pieno inverno, a Lauro, un ridente paese che sorge attorno a un vecchio castello principesco, sulle verdi colline dell’Irpinia, non lontano dal paese”.
Sono le parole iniziali del meraviglioso romanzo denuncia che è la “Tenda rossa, memorie di neve e di fuoco” che il generale Nobile pubblicò nell’ormai lontano 1969; poche righe dopo il futuro eroe polare raccontava dell’enigmatica comparsa di una zingara lì a piazza Monastero mentre il palazzo Lupo prendeva inaspettatamente fuoco.
Fu un attimo: quegli occhi slavi, scuri come le montagne asiatiche si posarono sul fuoco, quasi a unire brace con la brace. E si volsero ancora, posandosi sulla neve che cadeva: gelo che incontrava il gelo. Trovarono pace solo scorgendo il piccolo, ma fu solo un istante. Sibillina la zingara aprì la bocca volgendosi alla madre del neonato preveggendo nel bambino appena nato una tormentata lotta con il fuoco e la neve.
“Neve e fuoco”: le parole risuonate a Lauro dalla bocca di quella zingara rincorreranno sempre i giorni del nostro Nobile e talloneranno ancora la nostra curiosità.

Oltre il già noto: gli archivi raccontano…

1.       Un prete accusato di stupro

Già, la curiosità. Relegare tutto nella leggenda, nella ennesima notte lauretana delle cicale scoppiate? Sicuro che quella donna fosse una zingara? Queste domande mi hanno rincorso fin dal 1985, da quando inaugurato il museo Nobile lessi l’aneddoto (si, a nove anni ero già matto!). Ci sarà da qualche parte – questa è la domanda decisiva che mi ponevo – un documento che attesti la presenza di nomadi in quegli anni nella Terra di Lauro?
Ora posso dirlo: la pazienza premia. E il documento esiste: leggete i fatti.
Pochi mesi dopo la nascita di Umberto Nobile il sindaco di Taurano Luigi Candia fa pubblicare dal suo avvocato Alfonso Vastarini Cresi una memoria accusatoria nei confronti di due abitanti di Taurano. Il fatto è serio e serissima è l’accusa: tentato omicidio.
All’alba del 23 aprile del 1884 Luigi Candia sta attraversando il Trappito, la località tra Lauro e Taurano. Improvvisamente, a ridosso della cappella, a pochi passi tra la Cappella Palmese e la chiesa del Santo, nei pressi di un albero di sambuco, partono dei colpi di fucile, tutti contro lui. Il sindaco miracolosamente esce illeso; immediate partono le indagini che si concludono contro una denuncia nei confronti di Nicola Ferraro, accusato di mano armata e tentato omicidio e di don Giuseppe Palmese, prete, accusato di essere il mandante del tentato omicidio.
In quei mesi di frenetiche raccolte di prove l’avvocato e deputato Vastarini interroga a più riprese gli abitanti di Taurano, soprattutto sul conto di don Palmese, il “diavolo nero” come lo conosce la gente del posto. Le testimonianze a un certo punto fanno sobbalzare… Si, perché un giorno Graziano Francesco e Venanzio Felice testimoniano che poco tempo prima una zingara passò al Trappito davanti alla casa di Palmese (al di sopra del deposito dell’acqua sopra al Santo). Lì don Giuseppe tentò di abusare di costei che "fuggiva inorridita dalla casa del prete, e dalla pubblica strada gridando fece tutte note le prave voglie del prete".
Non aggiungo altro: la notizia non ha bisogno di ulteriore commento. Abbiamo la prova archivistica che una zingara in quegli anni realmente passò più volte per la strada che collegava Lauro e Taurano.
Rammentate che la strada che univa i due paesi in quegli anni era la sola via del Santo, detta anche appunto del Trappito, come mostra la cartina del 1885 che qui allego e per la quale ringrazio l’amico carissimo, il dottor Giovanni Russo per la copia passatami.
Tanto basti circa i fatti misteriosi del 21 gennaio 1885 avvenuti mentre Umberto Nobile emetteva i primi vagiti.


2.       Nobile e Lauro nei giorni bui del 1928: “Sono nato in un paese che…”

Continuo a rileggere con voi le pagine iniziali del già citato “La Tenda rossa”: “Mio padre, capo dell’ufficio del Registro, un anno o poco più dopo la mia nascita, fu trasferito in una sede più importante, sicchè nessun ricordo dei miei primi anni è legato al paese dove nacqui”. Eppure Nobile nel 1969 aveva dimenticato di scrivere che Lauro fu ancora più volte presente nei suoi ricordi.
Questa volta la narrazione deve sorvolare i trionfi del 1926 e soffermarsi sui giorni funesti del 1928, all’indomani della tragedia dell’Italia.
Il 31 luglio 1928 Nobile ritornava in Italia dopo gli eventi del Krassin e della Città di Milano. Pochi giorni dopo era a Roma da Mussolini…
Usiamo il presente storico: rende meglio i fatti.
L’Umberto Nobile che Mussolini ha davanti è un uomo disfatto dalla tragedia, confuso, rattristato per la morte dei suoi compagni. Zoppica vistosamente e ogni movimento ormai gli è precluso: sotto la casa romana agenti in borghese dell’Ovra lo tengono da giorni sotto stretta sorveglianza. Solo qualche settimana dopo Mussolini – che è all’oscuro di questo fatto – smobilita la sorveglianza. Nobile ricorderà di aver fatto un solo viaggio a Napoli dopo la tragedia dell’Italia: di domenica, nel mese di novembre del 1928.
E’ sicuramente in quella circostanza che va inserito il fatto che qui rileggo con voi, fatto importantissimo perché emana nuova luce nel rapporto tra Umberto Nobile e Lauro.
Siamo a pochi chilometri da Lauro: a Montevergine. E’ una giornata di vento polare, con pioggia e nebbia a intermittenza. Lì sulla vetta del Partenio ormai non sale più nessuno. Nella tarda mattinata due monaci, appena cessata la pioggia, escono dalla chiesa abbaziale passeggiando nel Chiostro grande.
Di improvviso vedono un gruppo di persone, posare per una foto. Gli occhi dei due benedettini si concentrano su un uomo claudicante.
“Ci sembra di riconoscere i lineamenti noti non solo a noi ma a tutto il mondo”, annotano poco dopo. La sensazione che quell’uomo sia Nobile è confermata dal cane che corre e più volte richiamato: “Titina, Titina”. I monaci corrono a salutarlo ma l’uomo che li riceve è ormai distaccato, quasi seccato di essere stato riconosciuto.
Umberto Nobile sta attraversando il momento più buio: tutto sta crollando attorno a lui.
Il generale visita la Madonna, si ferma dinanzi a lei, prega intensamente. E mentre è davanti a lei si volge ai monaci e dice: “Non sapete che il Santuario di Montevergine è il mio santuario? Sono nato… in un paeseche sta sotto l’ombra della santa Montagna di Montevergine…”.
Si: davanti alla Madonna di Montevergine Nobile avrà ricordato tutte le sue tragedie. Uomo ormai senza terra, dinanzi a lei, la Mamma Schiavone, provò forse la nostalgia dei tempi antichi. E immediato il pensiero era corso a Lauro, al suo paese con quella casa natia subito lasciata.
E fu un sussurro. Perché le flebili voci dei momenti tragici divengono sempre carezza di amore. Quella voce amorosa persasi nel tempo noi l’abbiamo ostinatamente ricercata e ritrovata, per poter ridire con più fierezza dell’amore tragico e appassionato che unisce Lauro e Umberto Nobile. Auguri generale Nobile!
(Severino Santorelli)

domenica 2 dicembre 2018

Mons. Matteo Guido Sperandeo



Ieri era l’anniversario della morte di mons. Sperandeo. Prima di riproporre un post tratto dal nostro “archivio”, permettete un ricordo personale. Non ho conosciuto il vescovo per ovvi motivi anagrafici. Rammento solo lo splendore dei suoi pontificali a gennaio e ad agosto per la festa dei Santi. Posso però dire di averlo “conosciuto” dopo, nei miei primi anni universitari. Quando iniziai gli studi filosofici nel Collegio di San Luigi a Posillipo, rammentai immediatamente che lì aveva anni e anni prima studiato un Lauretano. Qualche mese dopo conobbi un vecchio padre Gesuita, Leonardo Azzolini. Padre Leonardo aveva sfidato il tempo, carico dei suoi novant’ anni. Già firma di spicco su Civiltà Cattolica, era ormai del tutto cieco. A noi studenti toccava a turno aiutarlo di mattina mentre celebrava e assisterlo mentre faceva colazione, leggendogli qualche libro. Ovviamente mi chiese di dove fosse. “Di Nola” risposi. E lui iniziò a parlarmi dei suoi compagni di studio negli anni ’30, ai tempi del pontificato di Pio XI. Avete capito: ebbi la fortuna di imbattermi in un compagno di studi di don Matteo! Quando gli dissi che ero di Lauro volle farmi un regalo. Indicandomi con una precisione tipica dei non vedenti dove cercare tra le sue carte, mi mostrò un cartoncino rosa. Era un “Programma” per la festa in onore del Papa Pio XI. E tra gli omaggi di quel dies academicus c’era un discorso del diacono Sperandeo. Padre Azzolini volle regalarmi quel cartoncino, augurandomi che mostrassi negli studi filosofici la stessa arguzia del nostro concittadino. Si: Sperandeo era arguto e sistematico nella speculazione. Elegante nei modi e soprattutto colto. Questo il ricordo che me ne trasmise padre Azzolini. Ed è bello ricordare quest’uomo della vecchia Lauro.
Posto anche la foto del suo atto di battesimo: figlio di Consalvo, muratore, e di Maria Pacia, Matteo Sperandeo nasceva il 2 ottobre del 1908.

A trent’anni dalla morte di mons. Matteo Guido Sperandeo

Nella Bibbia si parla di un sommo sacerdote, Simone figlio di Onia, di cui il Libro del Siracide tesse un elogio vibrante di emozione. Simone è non solo il ricostruttore del tempio, ma il sacerdote splendido mentre rende il culto a Dio: “Quando indossava i paramenti gloriosi, egli era rivestito di perfetto splendore, quando saliva il santo altare dei sacrifici, riempiva di gloria l’intero santuario” (Sir. 50, 11).
Ogni volta che leggo questi versi il mio pensiero corre spesso a mons. Matteo Sperandeo, per lunghi anni vescovo di Teano e Calvi, di cui ieri 1° dicembre ricorreva il trentesimo anniversario della morte che precede di pochi mesi il genetliaco centenario, avvenuto a Lauro nel luglio del 1908.
Pochi quarantenni ormai ricordano il nostro concittadino: le immagini sono quelle classiche della festa patronale di san Sebastiano quando pontificava a Lauro. E sono quei pontificali a rivelarci un aspetto di questo Vescovo: nobile nella figura, conscio dell’azione sacra che stava compiendo e perciò impeccabile nel rito sacro.
Nel Clero mariglianese correva il famoso aneddoto di quando, vescovo ausiliare a Nola, continuava la mattina a celebrare a Marigliano, in quanto parroco primicerio. E perché vescovo i pontificali (allora molto complessi) abbondavano se non quotidianamente, almeno settimanalmente.
Limitare la figura di mons. Sperandeo a quella di un uomo elegante e signorile sarebbe però molto riduttivo. Chi volesse può sfogliare il libro che la diocesi di Teano stampò nel 1984, al termine del suo ministero episcopale: lì emerge la figura ardita di don Matteo.
Qui voglio solo consegnare due ricordi di mons. Vescovo, credo noti ormai a pochissime persone e finora mai sottolineati abbastanza.
Il primo ricordo è la sua partecipazione al Concilio Vaticano II. Nell’Aula conciliare mons. Sperandeo non fece interventi; resta però il Votum cioè il suo parere su cosa il Concilio dovesse fare.
Scritto in un latino fluente, il Votum o desiderio di don Matteo è breve e schematico, concentrandosi su alcuni aspetti dottrinali e su aspetti pastorali.
E tre punti delle richieste dottrinali sono illuminanti sul suo carattere.
Scrive mons. Sperandeo: “Ius Ecclesiae in questionibus politicis cum teologia morali connexis definiantur. Doctrina Caroli Marx atque errores communistarum sollemniter dannentur. Quaedam capita de usu matrimonii e. g. methodus Ogino – Knaus, illustrentur ac definiantur”.
Cioè: Si illustri meglio il diritto della chiesa e le questioni di teologia morale che toccano l’agone politico. Inoltre sia dannata la dottrina di Marx e gli errori dei comunisti. E si approfondisca quanto attiene l’etica morale del matrimonio, con particolare attenzione al metodo Ogino Knaus.
Sarebbe banale liquidare il votum di mons. Sperandeo come quello di un vescovo conservatore. Il testo, ormai scritto quasi sessant’anni fa, è pienamente consono ai sentimenti dell’episcopato italiano di quel tempo. E perciò ci rivela un vescovo che non è un individuo che ragiona da solo, in cerca di un’originalità a quel tempo impensabile, o uomo di una modernità ardita ed eccessiva.
Sappiamo come le decisioni del Concilio saranno sorprendenti, e sarebbe interessante sapere se anche mons. Sperandeo scriverà un diario di quegli anni per cogliervi impressioni e attese ulteriori.
Ma se don Matteo agli inizi del 1962 è un conservatore, con il passare del tempo si scorge una evoluzione stupefacente.
Basta sfogliare i quotidiani del Casertano e vedere che, senza mai scendere in piazza, mons. Sperandeo agiva in silenzio stando sempre dalla parte degli operai. La sua parola non mancò mai presso i politici in favore di un esito positivo nella questione dei molti licenziamenti che si andavano facendo. E per gli operai organizzò una presenza capillare in tutta la sua diocesi dell’Onarmo, l’ Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai, emanazione dell’assistenza del Vaticano.
Il secondo ricordo è uno degli ultimi atti di mons. Sperandeo: la sua firma, il 4 luglio 1982, ad una lettera aperta ai politici italiani perché “il parlamento non sia cieco e insensibile” alla sopravvivenza dei poveri nel mondo. Di più: era la firma a un appello già lanciato dai Sindacati italiani, e di cui mons. Sperandeo, con altri sei vescovi, chiedeva ben presto forza di legge.
All’inizio rammentavo l’elogio di Simone di Onia: splendido nella liturgia del tempio, ma anche ricostruttore delle mura di Gerusalemme per la sicurezza del popolo.
Mons. Sperandeo è stato questo sicuramente: un sacerdote zelante del culto di Dio ma con gli occhi rivolti anche al vestibolo, cioè al popolo che Dio gli volle affidare. E perciò la sua memoria è degna di ricordo e piena di responsabilità anche per noi!

Trascrivo, per chi sia curioso, il Votum di mons. Sperandeo, indirizzato al Cardinale Domenico Tardini.

Exc.mi P. D. Matthei G. Sperandeo
Episcopi Calvensis et Theanensis

Eminentissime Domine,
Dum enixas preces Deo O. M. adhibemus, ut prosper exitus Concilio Oecumenico contigat atque Summo Pontifici Ioanni XXIII fel. Reg. maximas gratias pro tanto beneficio agimus, vota nostra Pontificiae Commissioni Antepraeparatorie, humillime committimus.
A) Quod ad doctrinam attinet optamus:
1. Ut doctrina de Universali B. M. Virginis Mediatione definiatur.
2. Doctrina de Corpore Christi Mystico definiatur atque officia fidelibus inde obvenientia limitesque apostolatus laicorum declarentur.
3. Ius Ecclesiae in questionibus politicis cum teologia morali connexis definiantur.
4. Doctrina Caroli Marx atque errores communistarum sollemniter dannentur.
5. Quaedam capita de usu matrimonii e. g. methodus Ogino – Knaus, illustrentur ac definiantur.
B) Quod ad disciplinam Cleri attinet, enixe rogamus:
1. Caelibatus lex confirmetur; presbyteratus vero ordo et votum castitatis perpetuae ad trigesimum annum remittantur, quo diaconus onus suscipiendum maturius perpendet, dum, studiorum curriculo peracto, per aliquot annos, munere ab Ordinario assignato fungi potest; sacerdotibus vero lapsis, qui matrimonio civili ligantur, benigne caveatur.
2. Parochorum inamovibilitas abrogetur.
3. Ius exemptionis Religiosorum coarctetur, atque Ordinariis, intra fines dioeceseos, pro animarum salute, eorum opera utendi facultas concedatur.
4. Denique sacerdotum incardinatio vel excardinatio atque cleri rationalis distributio expediantur.
Dum impensos animi sensus exprimimus, fausta quaeque Eminentiae Vestrae exoptamus.
Eminentiae Vestrae Rev.mae
Add.mus
+ Matthaeus G. Sperandeo
Episcopus Calvensis et Theanensis

Cfr. Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano II Apparando, Series I (Antepraeparatoria), Volumen II, Consilia et vota episcoporum et praelatorum Pars III: Europa Italia, Cura et Studio Secreteriae Pontificiae Commissionis Centralis Praeparatoriae Concilii Vaticani II, Typis Polyglottis Vaticanis MCMLX pp. 140-141.

lunedì 26 novembre 2018

Ciao fulmine





Non ho mai scritto della mia famiglia perché siamo persone ordinarie, semplicemente normali. Di tutti però tu, amata zia, eri l’eccezione. Tu eri Lucia: la vegliarda, la primogenita dei tredici figli, così somigliante a quella nonna presto andata via, così gioviale eppure così misteriosa. Era difficile fissarti in quegli occhi azzurri: il tuo sguardo fuggiva sempre. Eri quasi smaniosa, impaziente, insofferente degli altri e persino di te stessa. Tu zia, eri l’inquietudine e io sapevo di avere lo stesso carattere tuo. E perciò io e te ci cercavamo: nel pensiero, nel ricordo, nella ammirazione.
Cosa è stata la tua vita? Soltanto vita di fatica, sempre e soltanto fatica. Quella fatica che da ragazza ti ha consumato il corpo, china continuamente sul terreno. E la terra ti è stata maestra, perché da essa hai appreso la speranza. Perché solo il contadino che sparge il seme sa cosa siano speranza e pazienza.
I tuoi giorni non hanno conosciuto sosta. E nemmeno la tua inquietudine. Volevi qualcosa di più, qualcosa che assopisse per un attimo la tua irrequietezza. Forse anche per questo motivo sposasti un visionario: mai compagno migliore poteva affiancare i tuoi giorni. Un giorno decideste che il cielo in una sera d’estate divenisse abbagliante di colori. Tutti ne dovevano rimanere meravigliati, e il riverbero di quei colori doveva risuonare per valli e per paesi.
E le vostre visioni, quelle del tuo Antonio e le tue, amata zia, , sono diventate visioni di tutti, stupore, incanto di colori e di meraviglia.
I fuochi per voi due non erano balistica, chimica o semplice polvere: erano incanto da regalare e da rincorrere. Perché solo in quelle sere d’estate, per un attimo, la vostra inquietudine si assopiva. E solo il cielo riusciva a fermare il vostro sguardo. Solo lui. Nessun altro. E per quei colori visionari il cielo ha voluto il tuo vigore materno. Lo ha voluto fino a strappartelo: Salvatore, Cristofaro, Antonio. Il sangue del tuo sangue, pregno di passione e di visione come te, adesso sta finalmente davanti a te.
A noi qui lasci il sogno dell’impossibile: tornare a colorare il cielo. Amata zia, riposa ora. E risplendi, e brilla, cara zia: rincorri fulgida il firmamento, perché finalmente ora hai trovato la pace. Finalmente sei in quel cielo che da qui perennemente scrutavi: azzurro nell’azzurro, colore nel colore, luce nella luce.

sabato 24 novembre 2018

Il restauro della Porta della chiesa di Lauro 2/ Un appello per lei, infirmata et vulnerata.



Prima di iniziare la descrizione della chiesa così come un lauretano poteva scorgerla alla vigilia dell’incendio del 1799, sono necessarie due premesse. La prima: questo testo è un estratto – sintetico al massimo – di una ampia ricerca che ho stilato nel 1998, al tempo della redazione del giornale Segno dei Tempi e che è rimasta e rimarrà inedita per motivi facilmente intuibili. Seconda premessa: le fonti sono recuperabili in vari archivi. Oltre le notizie del Guadagni, uno scrittore del XVII secolo, e del Remondini che scriveva a metà del XVIII secolo, ho attinto alla Rivela del 1753 conservata all’Archivio di Stato di Napoli e a quanto è custodito nell’Archivio Diocesano, soprattutto i Registri delle Visite Pastorali e la Platea del Carmine. Quest’ultimo testo è anonimo solo in apparenza. L’attenta lettura che ne ho fatto me ne fa attribuire con certezza massima la redazione a Casimiro Bonavita, cancelliere del Comune di Lauro e testimone dei fatti dell’aprile 1799. E adesso si può iniziare davvero, non senza aver fatto i complimenti a Carmine D’Anna e ai promotori del restauro!

Accennavo al venerdì 17 luglio del 1615 e a degli uomini in attesa lì nei pressi dell’attuale Piazza di Lauro. Ricordiamoli questi nostri antenati: Giovanni Caropresio, Geronimo Cappellano, Pietro Sperandeo, Marcello Santaniello, Decio Vivenzio, Matteo Di Bartolo e Mario Bonavita. Sono costoro ad aver diretto in prima persona i lavori di costruzione della Chiesa del Carmine nell’attuale piazza di Lauro. La loro iniziativa cambiò definitivamente il volto di Lauro: scompariva l’antica “Piazza” che si apriva davanti alla chiesa di San Barbato e con essa l’orto di alberi e viti  e veniva a crearsi l’attuale insula del Carmine. Nasceva così un cantiere vasto che si addossava alle case dei Fusco e dei Vallone e che si protrasse per diversi anni.
In ogni caso nel 1615 il vescovo Lancellotti entra nella Chiesa “noviter constructam prope forum dictae terrae”, cioè da poco costruita presso la piazza di Lauro. A volerla erano stati i circa cento membri della Confraternita del Carmine, nata al tempo di Fabrizio Gallo, vescovo dal 1585 al 1614, rappresentati da quei nomi poco prima scritti. Imprecisa è quindi la notizia di Guadagni che vuole la chiesa costruita nel 1622. Probabilmente nel 1622 la chiesa è definitivamente abbellita anche se otto anni prima già essa funzionava perchè già dotata dell’occorrente per la celebrazione delle messe.
 ome era questa chiesa? Indiscutibilmente bella a leggere la descrizione dell’anonimo Amministratore del 1806 ma che in realtà è Bonavita, come ho spiegato nella premessa.
Chi entrava in chiesa doveva prima di tutto varcare la “porta grande” del tempio. E’ Guadagni a descriverci la porta antica; sia essa che il pulpito erano “tutti di noce d’intaglio peregrino, così minuto e rilevato di statue e fogliame che ognuno che li vede resta stupefatto”. Manufatti di noce e di intaglio secondo l’uso straniero (questo era nel ‘600 il significato del termine “peregrino”) con motivi vegetali e statue. Per farci un’idea della bellezza di quella porta antica dovremmo osservare la Porta di San Bartolomeo a Moschiano. Chi realizzò la porta e il pulpito del Carmine? Guadagni tace il nome; certamente non va dimenticato il probabile apporto delle maestranze locali dato che Lauro era la patria del famoso Capoccia, lo scultore Giacomo Bonavita, capostipite di una fortunatissima dinastia di artisti del legno.
Varcata la porta l’occhio si sarebbe concentrato sull’altare maggiore. Al di sopra di esso – è ancora Guadagni a parlare – si elevava “ la icona, opera magnifica di Giovanni Battista Verde, il primo scultore de’ nostri tempi, e di Giacomo Capocchia di Lauro, di non inferiore eccellenza”. Notizia non trascurabile: la chiesa del Carmine, eretta col contributo di circa cento lauretani, vide il concorso pieno e attivo di Lauretani nella stessa costruzione e decorazione.
Questa icona tutta di legno (“antichissima cona di legno” la chiama il Bonavita)  rappresentava – secondo la Platea del XIX secolo la Madonna del Carmine.
E alzando gli occhi si sarebbe ammirato il vasto soffitto dipinto nel 1776 da Angelo Mozzillo. A commissionargli l’opera fu l’amministratore del tempo, Gian Domenico Frezzaroli, che più volte ho citato nei miei post e su cui perciò non mi trattengo. Per Mozzillo quegli anni furono anche anni lauretani; secondo lo storico Domenico Corcione, il pittore di Afragola il 16 luglio 1766 aveva sposato una donna di Lauro, Teresa Fiorino.
Come poteva essere questo soffitto? Bello, indiscutibilmente bello come tutti i soffitti che ci sono giunti nelle nostre chiese. Pensiamo a Pago (dove Mozzillo dipinge per commissione dei Narni Mancinelli la Madonna di Costantinopoli) o a Fontenovella (qui a lavorare nel 1714 è il Mottola) o alle Rocchettine (ancora Mozzillo) o a Taurano e Quindici. Come vedete tutti i nostri soffitti decorati sono del XVIII secolo; solo uno, del XVII secolo, è a cassettoni (quello di San Giovanni). La datazione così coeva è ovvia: le frequenti eruzioni vesuviane, dal 1631 in poi, erano state così violente da far cadere i soffitti. Il XVIII secolo segnò un periodo di tregua dai danni del Vesuvio e perciò si passò a una loro migliore decorazione.
Quanto ho scritto finora (a parte la datazione del Mozzillo) era già noto. Meno noto è sapere come fosse la struttura architettonica della chiesa. A quanto pare essa era identica ad oggi: stessa ampiezza e probabilmente stessa altezza. Dieci cappelle, come oggi, cinque per lato. Entrando quindi dalla “Porta grande” un lauretano del 1799 ci avrebbe così descritto la Chiesa:
Lato destro della porta:
1. Cappella dei morti, così detta per un quadro del Purgatorio in esso rappresentato. Forse è la rovinatissima tela custodita in sagrestia: la Madonna del Carmine protesa verso le anime purganti. Attualmente vi è la tela dell’Assunta.
2. Cappella di San Filippo. Sotto gli occhi della statua di San Filippo (in legno) si riuniva la plurisecolare confraternita dei Sacerdoti. Successivamente, nel XIX secolo, la Confraternita si stabilì nella stanza al di sopra dell’attuale Sagrestia. La confraternita di San Filippo per quanto mi risulta è stata sciolta dal parroco Leonardo Falco nel 2008.  
3. Cappella di Sant’Antonio. Al centro la statua del Santo (è l’attuale statua?); al lato destro della stessa una piccola statua di san Francesco Saverio e al lato sinistro, sempre della stessa, una statua di san Michele, pur essa piccola. Attualmente vi è la statua di Santa Margherita. In realtà la stata attuale era una Santa Filomena. Con un discutibilissimo tocco di fantasia don Rocco in un giorno d’estate del 1992 la “ribattezzò” intitolandola a santa Margherita e sostituendovi la palma del martirio con un crocefisso. Alle orecchie di quanti gli fecero notare il gesto arbitrario risuona ancora un assordante “figli cari”, segno per più eloquente dell’antico Roma locuta causa finita.  
4. La quarta cappella era vuota. Come oggi era occupata dalla “porta piccola” che dava accesso all’attiguo vicoletto.
5. L’ultima cappella era dedicata all’Immacolata. Anche qui non sono in grado di dire se sia l’attuale statua, maltrattata - secondo il mio pensiero profano – da un discutibilissimo restauro compiuto ai tempi del parroco Don Rocco, in quanto condotto senza informazioni filologiche e indagini su eventuali strati nascosti del manufatto.
Entrando invece dal lato sinistro della porta si sarebbe presentata la seguente situazione:
1. Cappella di Sant’Antonio abate, attualmente occupata da una molto mediocre tela realizzata nel 1998 che vuole imitare – senza assolutamente riuscirci - il bell’affresco battesimale dell’abbazia di Sant’Angelo in Taurano.
2. Cappella di San Giuseppe. Qui aveva sede la Confraternita omonima fino a tutto il 1799. Attualmente è ancora intitolata al santo custode di Nazareth. Purtroppo anche questa meravigliosa statua, probabilmente la stessa antecedente l’incendio del 1799, è stata vittima nell’agosto del 1992 della arbitraria scellerataggine di don Rocco che la affidò a un imbianchino perché la ravvivasse nei colori. Voglio essere chiaro: venero don Rocco ma ciò non toglie che egli sia stato molto sbarazzino con l’arte. Un esempio è quanto successo alla Collegiata: non sappiamo nulla di come essa era, degli arredi sacri ivi custoditi ecc. Un uomo a mio dire si venera anche mettendo in luce i lati controversi: chi non li ha? In ogni caso ho davanti agli occhi lo sguardo confuso e interdetto di mons. Tramma nello scorgere lo scempio commesso su San Giuseppe.
3. Preceduta dal pulpito del Bonavita, la terza cappella era dedicata a san Lauro. Chiarisco una cosa: il san Lauro venerato in paese non è il compagno di martirio di san Floro. Il culto di san Lauro, attualmente resistente solo a Quindici, arriva a Lauro a metà del XVII secolo per iniziativa dei Lancellotti che ne ricevono anche il capo, depositandolo nel convento agostiniano sopra Santa Maria (poi lazzaretto e cimitero) nei pressi dell’attuale Carcere. Chi era questo san Lauro? Un “corpo santo “ o un “santo battezzato”. Mi spiego: un potente feudatario o un vescovo o una comunità chiedeva a Roma il corpo di un martire delle catacombe. Un prete addetto lo faceva estrarre e a suo piacimento gli imponeva un nome, senza ovviamente accertarsi se fosse realmente un martire o chissà… un antico romano! (Chi fosse incuriosito legga le erudite pagine dell’abate Mabillon che nel 1698 pubblicava in modo anonimo la Eusebii Romani ad Theophilum Gallum epistola de cultu sanctorum ignotorum). E a proposito: sia il capo di san Lauro sia il corpo di san Desiderio (custodito nella chiesa delle Rocchettine) dopo il 1799 furono affidati a delle famiglie di Lauro. Nel corso del XIX secolo però se ne perse notizia; probabilmente i discendenti di queste famiglie trovandosi delle ossa in casa – senza sapere di che si trattasse – se ne liberarono. Dove? Resta un mistero. O chissà,… le posero in un luogo facilmente indovinabile.
Dopo il 1799 la cappella di San Lauro scomparve; il muro a cui era addossato l’altare fu sfondato e si costruì un ampio cappellone che resistette fino agli anni ’60 del XX secolo. Don Rocco preferì chiudere il cappellone, guadagnandovi un ulteriore stanza per la sagrestia e pensando di mettervi una “artistica” vetrata raffigurante il Sacro Cuore. Era così artistica che lo stesso parroco in un attimo di rinsavimento confessò che altro non era se non “un ammasso di vetrume colorato”. Leonardo Falco per fortuna la soppresse mettendovi l’imponente Sacro Cuore di fine XIX secolo, un tempo in Collegiata, e che don Rocco invece aveva preferito “depositare” in una topaia a fianco della sagrestia della Pietà.
La quarta cappella era come adesso: Organo al piano superiore mentre attraverso l’inferiore si accedeva alla sagrestia.
La quinta cappella era infine dedicata a Santa Margherita. Anche qui una statua di legno. (Non mi esprimo se la santa Margherita di questa cappella sia l’attuale del secondo altare a destra. Sarebbe da ridere se fosse la stessa a pensare alle trasformazioni che quella statua ha dovuto assumere nei secoli!).
Potrei fermarmi ma aggiungo solo alcune considerazioni, con un appello che spero possiate far vostro.
Intanto una cosa chiara: la chiesa fu voluta dai Lauretani ed era amministrata da loro attraverso l’elezione dei Maestri. Una elezione pubblica, che si teneva ancora nel XIX secolo in piazza, ad agosto, con la partecipazione di tutto il popolo. Anche se la chiesa del Carmine già dopo il 1747 divenne sede delle due parrocchie di Santa Margherita e San Barbato, tuttavia conservò il suo carattere di chiesa cittadina. Quando fu inaugurata all’indomani dell’incendio, nel 1826, si sottolineò con fermezza questo fatto: il parroco era solo un ospite mentre il resto veniva gestito dai Lauretani.
Ovviamente i rivolgimenti politici e l’evolversi della disciplina canonica e civile ha portato a evoluzioni drastiche per cui l’antico carattere “ricettizio” della chiesa è ormai scomparso dal 1867 in poi. Resta però un dato: con la scomparsa dell’antico Istituto giuridico è anche aumentato il disinteresse della gente verso il luogo sacro. Le trasformazioni avvenute sotto il parrocato di don Rocco ad esempio si sono svolte sotto la più completa indifferenza della popolazione, pur se è vero che il terremoto colpì tutti e tutti avevano i propri guai. Perciò il restauro della porta ha un significato importante: volesse il cielo tornassimo a interessarci della nostra Chiesa.
E infine: cosa rimane del periodo antecedente il 30 aprile 1799, giorno dell’incendio da parte dei francesi? E quali danni produsse? I danni furono certamente notevoli: ad ore 4 di notte, cioè verso le 23 del 30 aprile crollò tutto il soffitto ormai divenuto completamente preda del fuoco. Resta però poco chiaro un fatto: pur essendo crollato tutto, è in questa chiesa del Carmine che vennero sepolte le vittime dell’incendio. Precisamente avanti all’altare, nella fossa già dei Preti di San Filippo. Fu don Rocco a vederne i resti, rinchiudendoli a metà degli anni ’80 in una cassettina e murandola per sempre. Peccato che non chiamò un fotografo o interpellò qualcuno per indagare meglio.
La cosa più importante però è capire cosa resta del periodo antecedente il 1799. Forse qualche statua. Sicuramente anche alcuni reperti in marmo. E anzitutto la lapide mortuaria a destra di chi entra. Raffigura a mio dire due preti; non è XIX secolo, questo è chiaro. Dato per certo – secondo l’inedito Bonavita – che la Chiesa aveva soltanto la sepoltura dei preti  e quella della Congrega di San Giuseppe, la lapide murata al fianco della porta è una reliquia dell’antica chiesa. Più ancora sono reliquie le due acquasantiere con le imprese dei Narni Mancinelli. Una è in piazza, divenuta “fontanella pubblica” per una decisone stramba e arbitraria di don Rocco che la consegnò all’amministrazione Ferraro durante i restauri della piazza. Sento la grave responsabilità, certamente esponendomi a delle critiche, di dirvi: stiamoci attenti. STIAMOCI ATTENTI. E’ impensabile continuare a vederla vittima delle pallonate dei ragazzi, vittima del caldo e del freddo, vittima della nostra indifferenza. E’ tutto ciò che ci rimane di un tempo di amore e di passione che voglia il cielo, torni ad essere vivo e a infiammarsi già da oggi, con il restauro della porta della chiesa.


Il restauro della Porta della chiesa di Lauro 1/ Il significato simbolico di un manufatto


Nella religione tutto è simbolo: oggetti semplici e quotidiani come il vino, l’acqua, il pane o le pietre vengono elevati ad altissimi significati nel tentativo di descrivere l’indicibile mistero di Dio e della sua manifestazione agli uomini.
Tutto è simbolo: l’oggetto sensibile diviene il trampolino per esprimere un concetto diverso che da umano diviene ormai teologico.
Simbolo è anche la chiesa di pietra, da sempre chiamata a evocare la dimora celeste dell’Altissimo lì, nella ultima e definitiva Gerusalemme.
Il simbolo è però anche ambiguo: perché sia capito va decodificato, altrimenti non è percepibile. Tale ambiguità ne ha segnato anche la fine odierna: pochi di noi ne comprendono la profondità e acutezza. E i motivi sono chiari: viviamo nell’epoca dell’immediatezza e in un tempo in cui – fatte le dovute eccezioni – il clero è ampiamente ignorante e digiuno di vivacità intellettuale.
In queste righe basti dire che anche un oggetto così normale come la porta ha ricevuto un significato simbolico. A darglielo è stato lo stesso Cristo quando ha paragonato la vita cristiana a un passaggio stretto, diverso dal passaggio ampio e spazioso della perdizione.
Parole queste che sono servite agli scrittori antichi e medievali, non ultimi Paolino di Nola e Durando di Mende, a sviluppare una complessa lettura simbolica dell’edificio sacro che ovviamente qui tralascio di raccontare.
Sono sicuro che don Luigi Vitale approfondirà questo tema nella conferenza di domani.
Della porta si sono però occupate anche l’antropologia religiosa e la stessa filosofia del linguaggio. La porta è infatti il tramite tra due contesti completamente diversi. Per essa si passa dal profano ( “ciò che è fuori del tempio” ) al sacro ( ciò che è “speciale” e perciò “diverso” ).
Insomma: la porta non è un oggetto “semplice”. Perciò il restauro che sarà presentato domani è un momento degno di attenzione.
Perché tra l’altro propone un interrogativo: cosa la porta celava prima dell’incendio del 1799?
Immaginate un giorno antico. Non uno qualsiasi, ma uno preciso: il venerdì 17 luglio del 1615. Siamo nella piazza di Lauro. C’è movimento come sempre. Pietro Sperandeo cammina nervoso lungo la strada. Da lontano vede giungere Geronimo Cappellano. In due l’attesa è meno tediosa. E anche altri arrivano: Giovanni Caropreso, Marcello Santaniello... Il loro sguardo è verso la Torre di via Terra. Si avvertono dei rumori. Tutto sembra pronto: la loro attesa sta finendo, e anche questa storia può avere inizio...

Lauro e il Cristo re / La visione di Daniele

La Chiesa cattolica domani festeggia il Cristo re. Nelle chiese risuonerà la misteriosa visione del libro di Daniele. 
E’ un libro recente dell’antico testamento eppure complesso più degli antichi testi, scritto da più mani e comprendenti diverse vicende tutte legate da un unico tema: il popolo ebraico pur se disperso nel mondo non si arrende. Il santo resto è sì debole fisicamente ma è forte spiritualmente perché fedele ai comandi e alla tradizione di Dio. Il libro di Daniele ha il suo apice nella visione misteriosa di questo Figlio dell’uomo: uomo sì ma ormai elevato alle altezze indicibili della divinità:
"Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d'uomo..
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto".
Siamo fortunati ad avere a Lauro una raffigurazione artistica che è anche una descrizione iconografica dell’antica visione apocalittica di Daniele.
Nella foto: Il Cristo in gloria attorniato dai membri della famiglia Lancellotti. Abside della cappella di San Filippo Neri al Castello in Lauro (AV), Scuola romana della seconda metà del XIX secolo (probabilmente 1881-1883).

venerdì 23 novembre 2018

Don Camillo e Peppone: echi del terremoto lauretano

Chi come me ha compiuto da poco i quarant’anni non ha nella memoria alcuna immagine della vecchia Lauro. Nessuno della mia generazione ha avuto la fortuna di scorgere gli intonaci secolari dei vicoli di Preturo o di Fellino; nessuno dei miei coetanei ha un ricordo o una immagine che aiuti a focalizzare l’aspetto della chiesa madre così come era ad esempio cinquant’anni fa. Alle nostre orecchie di bambini non sono risuonate le voci dei giovani che sedevano sulle gradinate del Carmine. Nessuno dei miei coetanei ha sentito il battere di mastro Peppe lì all’incudine quando si accingeva a ferrare i cavalli e nessuno dei “giovani” nati alla fine degli anni ’70 può ricordare il baretto di Michele lì a Fellino o tanti altri posti ogni tanto qui rievocati. Nessuna immagine, nessun rumore. Noi quarantenni abbiamo solo sentito parlare della vecchia Lauro. I nostri echi di infanzia sono stati soltanto i rumori dei cantieri, delle pietre che cadute ora venivano rialzate cambiando per sempre il volto di questo nostro paese. 
Il tremore squassante del 23 novembre 1980 ha segnato di colpo un taglio netto: taglio del tempo, dei paesaggi, delle emozioni. E perciò avidamente abbiamo cercato e cerchiamo ricordi, immagini, voci e testimoni.
Lo scritto che leggerete è la rielaborazione di diverse conversazioni avute con Don Rocco. Lo riconsegno a voi perché dietro queste righe si cela la voce del Parroco. E mentre lo rileggo un mondo di emozioni si affolla dinanzi alla mia mente. E spero anche dinanzi alla vostra.
Quel 23 novembre del 1980 cadeva di domenica. E come in tutto il sud anche a Lauro l’estate di san Martino sembrava non voler proprio andare via. No: non era una giornata novembrina. Sembrava primavera, dentro e fuori.
Sono le otto. Don Antonio Mazzocca si è svegliato di buon mattina; un nodo alla cravatta, un saluto rapido a Teresa e subito lascia il palazzo di Preturo in fretta e corre dal fratello, Don Ciccio il pasticciere. L’odore di paste avvolge i vestiti di Don Antonio lì nella pasticceria dallo stile così alpino, quasi da baita. Poche parole tra i due fratelli; solo un caffè preso rapidamente. E rapide le mani afferrano un vassoio di paste. Ciocchetto non fa in tempo a stargli dietro, carico com’è di buste con bevande e vermouth. Rapido Don Antonio arriva alla sede della Democrazia Cristiana locale. Oggi per lui è festa: viene inaugurata la sezione locale di Lauro. E la primavera novembrina di San Martino è di buon auspicio: per lui, per il partito, per gli iscritti.
Alle 11,30 ha inizio la messa. I ritardatari guadagnano rapidamente il sagrato. Messa di Cristo re; la predica non ha nulla di speciale. Come ogni anno si parla di un regno di pace e di amore portato dal Cristo.
Ore 12,30. L’odore di polpette pare arrivare fino in piazza. Segno che l’ora del pranzo è ormai vicina. Un saluto veloce in piazza e di corsa tutti a casa.
Ore 13,30. Si pranza. Soliti discorsi; uno però ricorrente: che farà il Napoli lì a Bologna? La mente è tutta protesa già alla sera. Questa domenica è ancora a metà giornata, eppure già si vorrebbe che finisse. Ma non passano le ore. Sono lente. No. Questa domenica non finirà mai. Mai più.
Ore 18,00. Francesca Venezia è una delle prime ad arrivare in chiesa. Va in sagrestia: prende il gonfalone del Sacro Cuore e lo addossa al pilastro prospiciente il vicolo del Carmine. Presto arriva anche suor Irma; al suo fianco c’è Antonietta Schiavone, la presidente delle Figlie di Maria. Antonietta ha tra le mani il gagliardetto delle Figlie di Maria; lo posa al fianco di quello del Sacro Cuore. Questa sera le associazioni religiose di Lauro iniziano il loro anno sociale.
Ore 18,15. “Nel nome del Padre, del Figlio…”. Ha inizio il rosario: le ave scorrono parlando di grazia scesa in terra, lodando una donna benedetta più delle altre donne. “Adesso e nell’ora della nostra morte”. Parole dette sempre distrattamente. La morte… così lontana… Chi vuoi che ci pensi ora?
Ore 18,30. Ancora un segno di croce. Ancora una messa. Come già di mattina, anche questa volta si parla di un regno di giustizia e di pace, quello di Cristo re.
Ore 19,00. “Obbedienti alla parola del Salvatore”. Ha fretta il Parroco di finire: c’è la partita tra poco. Il Napoli gioca… e… insomma, meglio non dilungarsi.
Ore 19.15. “La messa è finita, andate in pace”. Nemmeno cinque minuti e don Rocco ha già tolto i paramenti sacri.
D’improvviso però suor Irma si precipita in sagrestia: “Parroco, c’è il sorteggio, il sorteggio!”. Sì, vero… Si sorteggia una statua mariana, messa in palio già dalla patronale di agosto…”Faccia suora, ma in fretta”. Suor Irma però non conosce gli usi locali: non sa che si estrae prima ogni biglietto finchè non salta il nome di Maria Santissima… Solo quello successivo al nome di Maria è il vincitore… Suor Irma invece apre il primo biglietto estratto dalla bimba di turno e subito esclama: “Nunziata Nicola… Ha vinto Nicola Nunziata”…
Clamore delle ferventi donne, i cui nomi don Rocco non ha voluto mai rivelarmi, ma che forse potrei pure intuire… Clamori così forti che persino lui, il parroco, lui così sordo, riesce ad intendere. Esasperato dalla stanchezza e dal suo carattere fermo esce dalla sagrestia tutto trafelato. Ha so una grande voglia: mandare subito a casa quelle devote. E lo fa: “La suora ha ben fatto, forza, andate a casa!”.
Un rapido giro di ispezione in chiesa e dopo aver spento e sbarrato tutto, don Rocco si mette a bordo della sua 500. Intanto la chiave della parrocchiale è già tra le mani di Carminuccio Manna; ci penserà lui a portarla come di consueto nel Sale e Tabacchi dell’attuale vicolo Sperandeo.
La meta di don Rocco è una sola: il bar Mazzocca.
Sono le 19.30; Don Ciccio, vero e sapiente e ultimo artigiano del dolce ha appena fatto il caffè. Da patito del Napoli, lui, il maestro di tanti pasticceri, si rammarica del pareggio lì a Bologna.
E’ solo questione di attimi: un boato, le urla, lo sgomento di quel moto sussultorio. E il respiro impregnato della polvere dei calcinacci senza sapere dove, senza nemmeno rendersi conto. E’ il terremoto.
Don Ciccio non riesce a trattenere il parroco: Don Rocco corre veloce ed è subito a via Fontana. La stradina è già intasata dalle macerie: la cucina della Caserma dei Carabinieri è caduta giù e l’acqua delle condutture idriche impazzisce da tutte le parti. Dal vicolo del Carmine il Parroco giunge finalmente a Piazza Municipio. Ancora nulla è distinguibile: polvere da sedimentarsi, anzi, polvere che sale ancora, dal basso verso l’alto. Alza gli occhi. E vede. E’ crollato il timpano della chiesa. Un ciclope, così lo ricorderà a distanza d’anni il parroco, un ciclope che non ha occhio ma solo ormai voragine.
Lo sgomento, la paura, la fuga: questa è stata Lauro in quei momenti. Nunzio Mastroieni si avvicina al parroco: lo prende sotto il braccio e lo accompagna in canonica, a controllare se non sia crollato tutto. No: la canonica è in piedi, tanto che le sue stanze potranno ospitare anche Michele Colacurcio, il falegname di Preturo, capo di una cooperativa di artigiani, con la moglie.
Solo all’alba del giorno successivo si capisce cosa sia successo: la piazza è seriamente danneggiata e le scale della chiesa sono ormai un ricordo. La pesante croce di ferro e il timpano cadendo hanno lesionato tutto; il macellaio Eduardo Santaniello vede da lontano la sua auto sotto il cumulo delle macerie… Altre due o tre auto sono ugualmente da portare allo scasso… Ma per il resto se non fosse per i calcinacci, Lauro ha resistito bene.
Ovviamente i danni ci sono stati e l’Ufficio Tecnico del Comune individua circa 170 nuclei familiari da tutelare. Si organizza così una mensa presso il ristorante Santaniello, poi portata al San Filippo; al campo atterrano tramite un elicottero viveri di ogni genere; alcuni residenti hanno dei prefabbricati; altri alloggiano a Fontenovella negli attuali uffici dell’Agrivesuvio. E ciò fino al 1982, anno in cui il Parco della Maddalena (così detto in ricordo della prima Collegiata di Santa Maddalena di Lauro esistente in zona) entrerà a pieno regime.
E ora, prima di continuare con la cronaca, è necessaria una premessa. Di quei giorni del terremoto si è detto tanto, forse troppo – e lo ammetteva anche lo stesso Don Rocco. Sono vicende ormai lontanissime e tuttavia vive e ancora affascinanti. E’ in quei giorni che si creò il mito (ma forse a ragione) di un Don Camillo e Peppone lauretani. Amicizia e contese portate fino all’esasperazione da teste pensanti e di tutto rispetto. Lo dico perché i quindicenni di oggi sappiano che gente c’era in paese: di altissima levatura.
Era sindaco a Lauro l’avvocato Ottavio Colucci, uomo dalla scrittura fine e appassionato del suo paese. L’avvocato allora era nel pieno della maturità umana: gran fumatore, tipo che parlava poco (così me lo descriveva il Parroco), era succeduto all’avvocato Sebastiano Setaro, il sindaco morto prima di terminare il suo mandato. (Setaro… da ricordare questo nome!).
E’ ovvio che in quella situazione il sindaco Colucci e l’Ufficio Tecnico si mobilitarono e girarono in lungo e in largo il paese: per rendersi conto degli sfollati, per organizzare gli eventuali soccorsi, per interloquire colle autorità superiori.
Ed è ovvio che il problema principale era la zona centrale di Lauro: la piazza colla chiesa e via Fontana.
Il 27 novembre è emessa una relazione tecnica sulla situazione della chiesa; la decisione è di isolare tutta l’insula parrocchiale mettendo in sicurezza le criticità. E lo si fa, con una rapidità che oggi fa arrossire le lungaggini a cui si assiste spesso.
Il 29 novembre, a sera, arriva da Reggio Emilia una ruspa di dimensioni grandissime, della Ditta Fontanili… E il 30 inizia il lavoro sulla chiesa. Il problema è che non vengono abbattute le sole parti pericolanti, perché la ruspa inizia ad aggredire la prima delle 20 campate possenti della chiesa.
Si pensava di fare presto, ma la prima campata è resistente: solo il 2 dicembre crolla, rovinando sul tamburo e sulle prime cappelle prospicienti l’ingresso.
Poco dopo crolla anche la seconda capriata. E’ un battere continuo dei martelli (perché ora le ruspe sono due, sempre provenienti da Reggio), e a ogni battere man mano salgono polvere e sgomento …
E lo sgomento aumenta ancor di più perché arrivano dei cavi di acciaio (valore dichiarato di 3 milioni) per imbragare le varie parti del tetto e chissà, farlo venire giù… Ma le ruspe non posso andare oltre. La chiesa è troppo vasta… E allora? Le ruspe percorrono il Vicolo del Carmine… Ma niente, troppo stretto.
E’ allora che Don Rocco ha l’impressione che… che la chiesa venga abbattuta del tutto! E un nome rimbomba alle sue orecchie… Setaro, Setaro… Il vecchio sindaco!
Già! Setaro e il suo progetto: una piazza monumentale per Lauro, con porticati e negozi e palazzi laterali come al nord! Unico impaccio: la chiesa. Però la si può abbattere, portando la cura pastorale alla Collegiata.
Don Rocco rimugina… “Colucci sta pensando al progetto di Setaro?”.
Non so dire se sia stato il reale pensiero di questi due Sindaci. Racconto solo quanto mi riferiva il parroco, sospendendo io stesso il giudizio (chi sono io davanti a questi nomi che venero?).
I cavi non vennero usati: significava creare una situazione ben peggiore del terremoto. Si fece strada allora l'ipotesi - che non ho mai voluto verificare - di far operare le ruspe abbattendo il palazzetto di San Filippo (dov'è ora la sala parrocchiale).
E' ora di agire. Don Rocco lo sa.
Sono le 9,00 del 3 dicembre. All'improvviso suonano le campane. A martello. Chi le ha sentite (a Lauro l'ultima volta suonarono nel giugno del 2000) sa come suonino. Un martellio intenso, che ti incita a correre, ti dà forza e entusiasmo, ti sprona prendendoti tutto! Se poi le ascolti con una sinfonia di Padre Davide da Bergamo, ebbene, sì forse sei a Lauro, a rivivere quel 3 dicembre 1980.
Corrono le donne della Parrocchia: corre Lucia Rega, corre Francesca Venezia, corre Mafalda e dietro loro tante altre. Sono snelle: non hanno cuscini per simulare le gravidanze come altre donne di altri posti avevano fatto altrove nel ’64. E con loro accorrono i bambini.
E giungono le famiglie dell'insula della chiesa, quelle di via Fontana, quelle del Chiazzullo e del vicoletto: Armando Manzi, e Antonietta Ferraro. E il barista Giacomino Moschiano. E la moglie di Benito Vona colle figlie.
Stanno lì in piazza. Avanzano verso le ruspe mentre la tensione sale. Si guardano e si affrontano.
Le ruspe indietreggiano. Salgono a via Remondini, al palazzo Manara. Qui a sfidarle trovano Rega Giosuè e Renzullo Elisa. Scendono Fellino, ad abbattere la casa a fianco dell'Arco di Fellino... Ma lì sul piede di guerra c'è il prof. Corcione!
Ovviamente il commissario, il dott. Leopoldo D'Andrea vigila su tutto. E un fonogramma non è solo inviato alla Questura e al Prefetto ma anche alla Sovrintendenza dei Beni Culturali.
Il 4 dicembre le campane non suonano. In piazza c'è una processione di esercenti che fanno la spola tra Comune e Parrocchia. Tutto è transennato... ma gli affari? Gli affari vanno avanti, altrimenti come si vive?
Ci sono i barbieri, e c'è il macellaio; c'è il barista e ci sono i salumieri. E non va dimenticata la lavanderia! Biagio Ferraro e Ciro Sola sono i barbieri; Attilio Castaldo è il salumiere, col papà che è mast' Peppe, calzolaio a Piazza Nobile...
Nello studio di Colucci, Sindaco e Parroco cercano di capirsi, di "annusarsi"... Forse non tutto sarà andato per il verso giusto se il 5 dicembre don Rocco è a Napoli.
E’ corso nello studio di Corrado Ursi, cardinale di Santa Romana Chiesa e arcivescovo di Napoli, custode di San Gennaro e metropolita, e chi più ne ha più ne metta... Occorre parlare con Paolo Martusciello, provveditore alle Opere pubbliche... E il cardinale dà un biglietto di presentazione al Parroco che già si sta alzando dalla sedia di fronte al porporato... quando... quando Giacinto Mazzocca (te li giochi i telefonini di oggi!) chiama direttamente allo studio del cardinale. "Parroco, tornate a Lauro, c'è la Soprintendenza!".
Si, è arrivata la Soprintendenza. E sarà lei a decidere ormai il da farsi, tutelando i restauri che verranno poi effettuati dalla Ditta Tortora di Casamarciano, concludendosi il 30 agosto del 1992.
Finisce così nel giro di pochi giorni una delle famose “lotte” lauretane.
E io non trovo le parole adatte a concludere. Perché al pensiero di quei giorni, di pianti, di ruspe, di campane a martello, beh… il cuore si intenerisce, e l’emozione si ridesta, pensando a una Lauro orami finita quel 23 novembre 1980, trentotto anni fa.

Lauro e Umberto Nobile: nuove luci dopo 135 anni…

Ed eccoci a festeggiare il 135° compleanno del generale Nobile ricordando quel 21 gennaio del 1885, il giorno dopo la festa di Lauro. Don ...