Le
seguenti pagine sono un contributo di ricostruzione della modalità attraverso
cui la Passione di Cristo è stata declinata, recepita e vissuta a Lauro nel
corso dei secoli, muovendo dalla documentazione finora nota.
Il
tentativo non è nuovo
anche se diverso è l’approccio che, mentre farà emergere ancora una volta i
diversi dati documentari già noti, vorrà aiutare ad evidenziare la sondergut che contraddistingue i riti
della Passione a Lauro rispetto agli altri centri urbani viciniori.
L’analisi
deve anzitutto soffermarsi sui due termini in questione: Passione di Cristo e
Lauro.
1. Le diverse declinazioni della Passione
La
Passione è anzitutto un fatto storico verificatosi nella città di Gerusalemme,
uno degli estremi lembi dell’Impero Romano, tra il 6 e il 7 aprile dell’anno 30 d.C. Essa è il racconto
delle atroci sofferenze patite dall’ebreo Gesù di Nazaret, culminate nella sua
esecuzione in croce.
Questo
fatto storico è giunto a noi attraverso quattro racconti scritti da quattro
diversi autori, ognuno con un suo temperamento e un suo lessico specifico,
conosciuti con il nome di evangelisti.
Fatto
storico e letterario che per i credenti è un fatto di fede, in quanto il
protagonista della storia, l’uomo Gesù,
è Dio stesso.
A
sua volta questo fatto storico, letterario e teologico ha mostrato nel corso
del tempo una sua irriducibilità alla mera indifferenza: l’arte e il pensiero
hanno indugiato su di esso, scavalcando lo steccato della fede, facendo della
Passione anche riflessione costante sulla sofferenza e suscitando la domanda mai
sopita sul perché del dolore innocente.
La
Passione risulta essere così un fatto attraente e affascinante.
A
mio parere l’attrattiva e il fascino muovono dalle due modalità con cui la
Passione è riconoscibile: il dramma e il movimento.
1.1. La Passione
come dramma
La
Passione è anzitutto un dramma; concepita come un palcoscenico già dagli
evangelisti, essa offre lo spettacolo di Dio che rivela il suo amore e la sua
mansuetudine. Al contempo mostra lo spettacolo dell’innocente che soffre.
La
spettacolarità ha poi un che di sublime: simile alla commedia pirandelliana dei
Sei personaggi, essa fa vedere autore
e attori confusamente ravvisabili. Perché autore e attore coincidono: autore è
Dio, ma autore è anche l’uomo che può scegliere quale parte interpretare nel
copione.
Azione
drammatica appunto, dove nulla è già deciso, al contrario della tragedia dove
invece il copione è statico e sacrificato all’implacabile e cieco volere del
fato indifferente.
E
perché dramma, cioè spettacolo aperto a tutti, dove chiunque può essere attore
e spettatore, la Passione è diventato elemento coinvolgente sempre più persone.
Caratteristica che ritroviamo , come tra poco mostrerò, anche qui a Lauro.
1.2 La Passione
come movimento
Per
recitare questo dramma, l’unico strumento adatto è stato sempre il movimento.
Già nei vangeli è impressionante il repentino succedersi di scene e personaggi,
ambienti e orari; questo movimento prosegue continuamente da quel 7 aprile del
30 nel movimento interiore della preghiera e della riflessione e nel movimento
esteriore dell’arte, della musica, della letteratura.
E
anche a Lauro ritroviamo la modalità del movimento, nel cammino dei
biancovestiti o nelle melodie dei loro canti: l’unica possibile per declinare
l’evento della Passione.
1.3 Il
determinato contesto di Lauro
Il
secondo termine in questione è Lauro: un piccolo nucleo urbano, posto su uno
dei lembi estremi della propaggine montuosa irpina ma proiettato del tutto
verso la conurbazione napoletana. Situata sulla via di mezzo tra Napoli e
Avellino, in una posizione decisamente marginale Lauro è riuscita, anche per il
suo contesto geografico, a conservare almeno fino al 1980 una sua particolare
fisionomia culturale che è diventata la sua identità specifica.
L’attenzione
alle tradizioni, la valorizzazione del suo patrimonio culturale uniti alla
bellezza del territorio hanno permesso che Lauro rafforzasse la sua identità,
che vede convergere fierezza, presunzione, discrezione e pragmatismo, e i cui
risultati si ripercuotono anche sulla modalità con la quale il dramma e il
movimento della Passione si esplicitano ancora oggi.
2. La Passione come dramma: la Quaresima del 1582 a Lauro
Le
prime notizie sulla Passione a Lauro le ritroviamo a partire dall’anno 1582.
I
personaggi coinvolti sono tre: Tommaso Costo, Scipione II Pignatelli e la
Comunità di Lauro e ognuno di essi ha un comportamento adeguato a quel determinato
contesto storico.
2.1 Il contesto
civile e religioso del Viceregno
A
livello generale quegli anni appaiono come una sorta di tempo sospeso.
Il
Regno di Napoli è ormai un ricordo lontano, sostituito dal Viceregno. Il re è a
Madrid e qui è rappresentato da una scia di Vicerè stranieri la cui unica
preoccupazione è tenere a bada tutti, dai baroni ai regnicoli.
La
calma è assicurata ricorrendo a prammatiche e bandi, a farraginose macchine
burocratiche e giuridiche, a complessi sistemi di baglive, donativi, arrendamenti
e tributi.
Non
diverso è il clima religioso.
I
tempi del Valdès e dell’Ochino e dei
loro circoli riformistici sono un ricordo lontanissimo. Non è ormai più
possibile manifestare esternamente la propria fede pensata e meditata
interiormente.
Perché il clero è in pieno attacco controriformistico e tutto deve essere
controllato perché tutto sia disciplinato e ortodosso.
I
Sinodi sono sempre più frequenti, i Vescovi e il Cappellano Maggiore sono
quanto mai attivi in ogni minima decisione e al contempo nuovi ordini religiosi
– Teatini prima e Gesuiti poi – iniziano la gestione delle opere sociali e
intellettuali con l’obiettivo nient’affatto celato di guidare e indirizzare le
coscienze dei singoli.
2.2 Scipione II
Pignatelli e l’ascesa di una famiglia cadetta
Avviciniamoci
ora ai protagonisti di questa particolare Quaresima laurinense, la prima di cui
troviamo documentazione.
Il
primo personaggio che entra in scena è un giovane barone napoletano, Scipione
II Pignatelli.
Dal
settembre 1581 ha ereditato i beni del nonno Scipione, morto ottuagenario a
Napoli e diventando così marchese di Lauro e di Palma.
E
perchè giovane, il neo marchese sente su di sé il peso della sua nuova
posizione, unito al timore di non reggere il confronto con quanto il nonno ha
fatto per far emergere dal nulla una famiglia che a Napoli ormai contava, già
con un seggio nel Sedile di Nido.
E
in effetti il nonno aveva fatto tanto. Era stato un soldato, sempre in vedetta
continua contro i turchi lì alla piazza di Taranto, reggendola due volte. Erano
venuti poi il governo di Otranto e l’acquisto della villa a Poggioreale. Anni
inquieti, perché il vecchio Scipione era stato condannato a un affanno
continuo: quello di farsi un nome. Nato cadetto, fin da subito aveva fatto i
conti con i giochi ereditari già decisi.
Duro lavoro, due matrimoni ben studiati, le giuste amicizie e soprattutto tanti
soldi.
E
fu con tanti soldi che Scipione I fece il grande salto: conosciute le
difficoltà economiche di Maria Sanseverino, ultima feudataria di Lauro, si era
fatto avanti con centinaia e centinaia di ducati sonanti. E così il 22 dicembre
del 1541 tutti i laurinensi si ritrovarono una lettera della Contessa ormai in
partenza: “… Sarete ben trattati et
accarezzati dal signor Scipione Pignatello.”.
Quarant’anni
di amministrazione feudale sono lunghi e tanti sono gli eventi che accadono.
Arrivato a ottant’anni Scipione deve fare il conto più con gli affanni che con
i successi. Gli sono morti tutti i figli tranne Ascanio, il poeta, che però è
lontano con una vita tutta sua, fatta di armi e di poesia.
Somiglia
un po’ a Franz Joseph questo Scipione: l’eredità non toccherà al figlio
Camillo, a lungo educato, ma al giovane nipote Scipione.
Si
comprende allora quanta responsabilità Scipione II sente addosso: a lui tocca
portare avanti l’onore della famiglia.
Appena
seppellito il nonno, Scipione deve prendere visione delle proprietà di famiglia
e soprattutto progettare un buon matrimonio.
Ci
vuole calma. E serve un posto tranquillo dove meditare e riflettere.
Palma
è troppo esposta alle regie strade: potrebbero venire amici e ospiti e sarebbe
scortesia non riceverli. Perciò è opportuno salire a Lauro: un posto isolato e
quindi tranquillo.
Dicembre
1581: lasciata Napoli Scipione è già a Lauro.
Ma
un uomo è grande anche per le persone che lo attorniano. Scipione sa che
occorre tessere buone relazioni, metter su un salotto, una “corte” come allora
si diceva e come buona creanza esigeva. Se non riuscirà ad avere il salotto
letterario del nonno, quello dove Torquato Tasso e gli altri petrarchisti erano
di casa, dovrà pur tentare qualcosa.
E
Scipione passa in rassegna gli uomini di lettere di Napoli per scegliere
qualcuno da tenere a servizio come “segretario di lettere”.
E
la scelta cada su un altro emergente di quegli anni. Il suo nome è Tommaso
Costo.
2.3. Tommaso
Costo
Tommaso
Costo quando arriva a Lauro ha circa 36 anni. Si è fatto un buon nome come
segretario presso i Carafa di San Lucido e i D’Avalos – Orsini. E come
Pignatelli cerca notorietà.
Buon
dissimulatore, asseconda i nobili presso cui è a servizio, anche se nel privato
si sfoga lamentando una vita tutta soggetta ai diversi umori dei vari padroni…
ma tocca pur campare!
Nei
mesi invernali del 1581 Costo è avvicinato da un uomo di Lauro, Guglielmo
Bossone, già segretario di Casa Pignatelli. Il vecchio impiegato fa la
proposta: il giovane marchese cerca un nuovo segretario. Costo ha buon fiuto e
accetta perché sa che Scipione è ambizioso quanto lui.
Ed eccolo a Lauro alla fine del 1581.
Vita
di lettere, di compagnia al marchese di intrattenimento degli ospiti e soprattutto
di studio. Avrà inizio così un sodalizio felice tra il marchese e il suo
segretario. Se Costo pubblicherà quasi tutte le sue opere storiche e
letterarie, potrà farlo perché dietro di lui c’è Scipione Pignatelli che
finanzia, come ampiamente informano le Dediche delle Opere del Costo.
Il
suo ritratto traspare continuamente nell’Epistolario, l’unica fonte che aiuta a
ricostruire questo percorso sulla Passione a Lauro nel ‘500. E l’impressione è
quella che il Berni diceva di sé e del suo lavoro di segretario: “Aveva sempre in seno e sotto il braccio /
dietro e innanzi di lettere un fastello, e scriveva e stillavasi il cervello”.
Le
premesse sono finite e si può entrare nel vivo dell’argomento.
2.4 Un sonetto
di Vittoria Colonna
Tommaso
Costo arriva a Lauro con una lettera giuntagli da Gravina, scrittagli da
Marcello Pescicello.
Tra le molte parole di cortesia c’è una curiosità e una proposta del Duca di
Gravina.
Il
D’Avalos si è imbattuto in un sonetto della più grande poetessa del secolo, Vittoria
Colonna, morta ormai da 34 anni.
Il sonetto che ha tra le mani è incompleto, formato com’è di una sola stanza.
Possibile che esso sia senza seguito, si chiede il nobile? A Costo, che ne sa
di letteratura, è chiesto di verificare se il sonetto sia davvero monco, e
qualora lo sia lancia una proposta: indire una gara tra i letterati per
completarlo.
Il
segretario legge il sonetto e si mette all’opera: per lui è monco e va completato;
non sa che il sonetto invece è già edito e pubblicato a Venezia fin dal 1546!
Ma
di che tratta il sonetto? Della Passione di Gesù.
Vittoria
Colonna dopo la morte del marito ha subito un dramma esistenziale che si
ripercuote anche sul suo orizzonte intellettuale. Come già Paolino di Nola, la
sua poesia non si concentrerà più sui piaceri della vita, ma sul Cristo e il
Cristo crocefisso.
Darà
sfogo così alla sua religiosità e alle inquietudini che le avevano attirato addosso
lo sguardo guardingo dell’entourage papale, sospettoso che ogni afflato potesse
sfociare nell’evangelismo luterano. La Colonna ad ogni modo dava vita a un
lirico ed emozionate corpus di Rime
spirituali.
E
il sonetto che arriva a Lauro con il Costo si apre con una domanda drammatica:
Quando la croce
al Signor mio coverse
gli homeri
santi: ed ei dal peso grave
fu constretto a
cader: or con qual chiave
era alhor chiuso
il ciel, che non s'aperse?
Perché
Dio era indifferente quando Gesù venne caricato della croce? Possibile mai che
egli restasse silenzioso e lontano?
Continuiamo
a leggere le risposte – ignote al Costo – che la Colonna riesce a darsi:
Sol per pieta di noi, quanta sofferse
contra se crudeltade? Ohime il soave
sangue innocente pur convien che lave
le macchie intorno al reo mondo consperse?
Nasce il nostro riposo da la guerra
de l'auttor de la pace? e viene a noi
lume dal chiuder gli occhi al vero Sole?
Il divin padre i gran secreti suoi
cela e discopre, quando e com'ei vole:
et basti a noi saper, ch'egli non erra .
Tutto
fu necessario perchè lo chiedeva l’amore. La nostra pace viene forse da una
guerra affrontata da Dio? A noi non è dato di conoscere i suoi segreti
misteriosi; basta solo sapere che in lui non vi è errore.
Non
sfugge la drammaticità di questi versi nel loro inizio che lentamente muove
nell’assopimento finale: Vittoria sa che è rischioso per lei indugiare troppo
su questi argomenti.
Rischioso
perché sospettata di evangelismo e rischioso per il suo spirito è minato già da
troppi anni di vedovanza e solitudine lancinante. Le basta sapere soltanto che
Dio pensa a tutto e tutto ben dirige.
Diverso
è invece l’approccio di Costo alla domanda inquieta della divina marchesa: le
sue risposte sono semplicemente attente allo stile e conformi al pensare
comune.
E
tra le mura del Castello si mette all’opera e scrive due proposte di
completamento del Sonetto.
Nella
prima osserva che il turbamento del cielo è accompagnato anche da quello del
sole e della terra. A rimanere indifferente è soltanto il cuore carico di
empietà, incapace di commozione davanti all’amore di Dio:
Come il sole mirò? come il sofferse
l'ingratissima terra, alle cui prave
colpe d'alta pietà l'occhio soave
Dio volse, e'n sacrificio a Dio s'offerse?
Ma s'aprì il Ciel, si turbò il Sole, si scosse
la terra al maggior uopo, e del gran caso
illustre segno fer tutte le cose.
Solo tu cor nell'impietà rimaso
non ti struggi in pensar, ch'amor sol mosse
Dio, ch'all'estremo mal per te si pose.
Nella
seconda proposta Costo pur assecondando il pensiero iniziale della Colonna, non
riesce a però che a continuare con una esortazione a seguire il Cristo, uscendo
dal peccato. E se pure questo fosse impossibile, si salga almeno il Calvario
gridando la propria miseria davanti alla Croce:
Chiudeal quella pietà, ch’en se converse
l'orribil pena del gran fallo, ch'ave
afflitto il mondo. Or, perchè quel si lave,
convien, che'l Verbo eterno il sangue verse?
Deh alma peccatrice esci pur fuore
del carcer, che t'ingombra, e va veloce
ov'al tuo Dio purgar vedrai il tuo errore.
E s'altro far non puoi, su quella Croce
ch'ei porta, ascendi seco, e ch'egli more
per colpa universal, grida a gran voce.
Costo
è un uomo del suo tempo: la perfezione estetica di allora rifiuta il
frammentario – uno dei motivi per cui partecipa alla gara, unito a quello di
mostrare la sua valenza letterario – eppure lascia presagire qualcosa del suo
carattere religioso.
Il
suo approccio alla Passione è puramente letterario, anzi lessicale, come
mostrerà nelle lettere dove spiega il suo intervento sul sonetto.
I
suoi sentimenti religiosi li tiene nascosti perché ormai il sentire religioso
si è assopito. La gerarchia ecclesiastica non gradisce che i laici trattino
questi temi e se uno ha interessi religiosi o meglio teologici, è meglio
dissimularli nel più onesto modo possibile.
Intus ut libet,
foris ut moris:
dacchè era il motto di Cremonini, era divenuto il tacito dire di tutta un’epoca.
Tutto va così trasformandosi in esteriorità ed
estetismo: il dramma sta per diventare recita, con buona pace della marchesa di
Pescara.
E
così accadrà e accade ancora a Lauro.
Ed
ecco già una prima domanda affiorare, la cui risposta sarà decisiva: come si
reggerà a lungo una tradizione se non brucia di amore ardente, se non muove da
una pur minima forma di sentimento religioso?
In
ogni caso voglio ripensare a Croce che, degno figlio di Vico, ricordava continuamente
che ogni storia antica è sempre una storia contemporanea.
E
infatti se il primo dato documentario sulla Passione a Lauro è un dato
letterario, questo dato letterario persiste ancora nei versi cantati dai
Biancovestiti. All’inquieto sospiro di Vittoria Colonna fa eco il canto delle
nostre chiese:
Dite, mio Dio, che fanno
i Serafin in ciel?
…………………………
Ma se Gesù si vede
di croce caricato
paga l’altrui peccato
l’immenso suo amor.
2.5 Echi
spirituali nei Pignatelli
Ma
come passano i giorni quaresimali del giovane marchese? Ha lasciato Napoli, non
solo per vedere il nuovo feudo, ma anche perché era consuetudine che in vista
della quaresima la vita sociale della Capitale subisse una stasi.
Tornei,
feste, giostre e entrare solenni: tutto veniva sospeso e ai nobili non restava
altro che trasferirsi in campagna, in “villa”, per usare il termine in voga
allora, a vivere con calma i digiuni e le penitenze quaresimali.
Costo,
il testimone dei fatti, non dice molto sulla Quaresima al Castello: solo lievi
accenni alle attenzioni alimentari del Marchese e nulla più.
Non
si sa se anche a Lauro regnasse il conformismo a stento sopportato e cui il
Costo aveva pur già scritto.
Possiamo però ipotizzare, sempre sulla scorta dei documenti giunti, che il
giovane Scipione fosse attento alla osservanza, o meglio alla milizia
quaresimale, come allora si diceva.
E
questo anche per la vigilanza di due zii religiosi: uno presente spesso a
Lauro, il melitense fra Annibale, mentre un altro è lontano ma attraverso lettere e richiami non fa pesare la sua
assenza. E’ il padre Basilio, teatino, preposito di San Nicola a Venezia,
futuro vescovo dell’Aquila e futuro Consultore della Congregazione de auxiliis, istituita per risolvere una
complessa questione di teologia morale che andava spaccando domenicani e
gesuiti.
Scipione
quindi pur se segue il vezzo letterario di famiglia e va a caccia facendosi
mandare bracchi e falconi di Ponza, intende allo stesso tempo prepararsi alla
Settimana Santa.
Cerca
un buon predicatore: fra Onofrio da Fano, un francescano dell’Osservanza, uno
dei tanti Quaresimalisti che lasciavano i conventi subito dopo Natale per
raggiungere città e centri rurali per svolgervi la predicazione.
Scipione
ne fa richiesta al Ministro Provinciale, ma fra Onofrio è già impegnato. Il
marchese deve fare a meno di “quella consolazione che spiritualmente suole
haversi dal raro officiare de’ frati di san Francesco”.
La
richiesta di Pignatelli lascia intravedere un ulteriore aspetto del dramma
della Passione a Lauro: la sua interiorizzazione.
Scipione
e sua moglie, Vittoria Della Tolfa, con la quale contrarrà il matrimonio subito
dopo la Pasqua del 1582, hanno come direttore spirituale il teatino Andrea
Avellino.
Il
futuro santo sarà diverse volte a Lauro e gli echi di quanto raccomandava ai
giovani feudatari sono ancora ravvisabili nelle lettere di direzione spirituale
indirizzate a Vittoria.
Sono
lettere dove si parla di Croce, di
passione di Gesù, di esortazione a non peccare perché il Figlio di Dio pur di
salvarci “non si curò di morire di morte crudele e vituperosa”.
Che il clima religioso fosse forte a casa Pignatelli, lo testimoniano due
fatti: Vittoria della Tolfa veniva descritta dai letterati come "honesta,
e santa, di gran saper, di nobiltà soprana", parole certamente
encomiastiche ma forse non lontane dall’impressione che essa dava realmente.
A sua volta Scipione, alla morte della moglie preferì abbandonare tutto e
diventare religioso.
2.6 Echi
spirituali a Lauro
Siamo
così condotti davanti all’interiorizzazione del dramma, la stessa che appena
pochi anni prima, nel 1578, un altro laurinense, Ascanio Buonaiuto, aveva
avvertito in sé quando, sembrandogli di vedere un uomo camminare con la croce,
comprese che doveva immediatamente seguire Cristo crocefisso.
E
perciò questo giovane ventitreenne chiese subito a Claudio Acquaviva, allora
Generale dei Gesuiti di poter servire il Cristo nella Compagnia. Ascanio iniziò
così una avventura di santità che dall’Italia meridionale lo portò fino a
Lisbona per poi imbarcarsi e toccare il Brasile, dove nelle foreste della
Capitania dello Spirito Santo svolse il suo ministero per 40 anni a servizio
degli indigeni. Come diceva il suo biografo, solo Dio sa quanto bene fece.
E
così avverrà secoli dopo per un altro laurinense, Illuminato Cherubino Rega, di
cui ricorrono in questo 2018 i trenta anni dalla morte. Il fratello, mastro
Aniello Rega, confidava a don Rocco che Illuminato si fece frate perché
guardava sempre il crocefisso. E perciò partì per il Brasile. Proprio come
Ascanio Buonaiuto nel 1578.
La
Passione a Lauro è stata anche un discorso di santità!
2.7 La
Schiodazione di Cristo
Costo
ci consegna infine l’ultimo dato della Quaresima del 1582. Il 10 marzo il
marchese fa scrivere una lettera indirizzata a Roma, al cardinale Antonio
Carafa, bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
E’
un testo carico di informazioni che merita perciò di essere trascritto per
intero:
All'illustrissimo
e reverendissimo Signor mio e padrone osservatissimo il signor cardinale
Carrafa
Essendosi molti
dì fa convenuti alcuni di questi miei vassalli di rappresentare questa
settimana santa che viene il misterio della schiodazione di nostro Signore,
opera in versi bella ed approvata, sono andati per la licenza a monsignore il
Vescovo di Nola, il quale, tuttoche ci sia il sacro Sinodo napolitano che vuole
che simili rappresentazioni si possano fare con licenza del vescovo del luogo,
dice non volerla concedere senza voto e consulta della sacra Congregazione de'
Cardinali.
Della quale
essendo capo V.S. Illustrissima confidatomi nella servitù che non solamente ho
io, ma tutta casa mia verso di lei, mi
sono mosso a supplicarla, come fo con questa, che resti servita ordinare al
detto Vescovo, che havendo riguardo e al tenor del Sinodo, e all'approvazione
dell'opera, conceda tal licenza, acciocchè la fatica durata in essa da questi
galant'huomini, e la spesa già fatta nell'apparato non sia invano. Et io
ricevendo questo favore in persona propria, ne haverò perpetuo obligo a V.S.
Illustrissima, alla quale desiderando ogni grandezza, le bacio per mille volte
le mani.
Da Lauro a 10 di
marzo 1582.
Di V.S.
Illustrissima e Reverendissima,
Servo
affezionatissimo che la servirà sempre,
La
lettera è chiarissima: a Lauro si sta per mettere in scena il dramma della
Passione, e tutto è orma pronto; il testo è “approvato”, cioè stampato e
probabilmente rivisto dai censori ma il
vescovo di Nola Filippo Spinola è titubante e rimanda la questione a Roma.
Pignatelli, che appare come lo sponsor della rappresentazione, cerca l’aiuto
del cardinale Carafa per sbloccare l’impasse.
Se
la lettera è chiara, tuttavia essa pone tre interrogativi: quale fosse il testo
rappresentato, il perché della titubanza del Vescovo di Nola e chi erano gli
attori implicati.
2.7.1 Le sacre
rappresentazioni nei luoghi vicini
Il
testo è un “Mistero”, cioè una rappresentazione teatrale della Passione con
attori e scenografi, con tutte le conseguenti spese di allestimento.
Il
problema è nel titolo che è abbastanza generico. Si ribadisce che esso sia un
testo approvato (due volte) e quindi probabilmente stampato, ma nelle edizioni
del XVI secolo non compare nessuna opera sotto il titolo di Schiodazione.
A
questo punto è opportuno anche chiedersi se in luoghi vicini a Lauro si
tenessero sacre rappresentazioni.
Isidoro
Fusco in quella che chiamiamo Cronografia
documenta che tra XVI e XVII secolo nel vicino paese di Quindici la
confraternita del Rosario organizza per la domenica delle Palme e per il
giovedì santo la simulazione e dell’entrata di Cristo a Gerusalemme a dorso di
un asino e la lavanda dei piedi. Gli attori che interpretano gli apostoli –
continua il Fusco – sono vestiti con parrucche, barbe e corone.
Di
qualche anno precedente è l’informazione su quanto succedeva a inizio secolo a
Nola. Nella descrizione della sua città il nolano Ambrogio Leone ricordava le
rappresentazioni che lì si tenevano, citando in particolare quelle della
Resurrezione e del Viaggio dei Magi a Betlemme. Erano scene – continua il Leone
– che si tenevano nelle chiese o nelle piazze, o davanti alla chiesa di san
Francesco, nei pressi del mercato del grano. Spesso addirittura diventavano
degli spettacoli itineranti per le varie strade della città.
Si
è più informati sulla situazione di Aversa, anche se geograficamente essa è più
lontana rispetto a Lauro.
La
Biblioteca Nazionale di Napoli conserva trenta composizioni manoscritte di pie
rappresentazioni, di cui diverse dedicate alla passione, tutte inscenate ad
Aversa tra il 1534 e il 1575 e già studiate da Francesco Torraca, da cui
attingo le informazioni.
Esse
sono accomunate dal titolo generico di Opus
hebdomadae sanctae e la loro lettura può fornire dei suggerimenti utili a
intuire come potesse essere il mistero della Schiodazione a Lauro. Erano un alternarsi di versi e di canti con
un susseguirsi di personaggi evangelici fino a inserire a volte anche la figura
dell’ebreo incredulo.
Soprattutto
l’Opus del De Baldariis, risalente al
1534 si sofferma sulla Deposizione, facendone il climax dell’intero mistero raggiunto nel lamento di Maria sullo stile dello
Stabat di Iacopone.
E
nel resto d’Italia quale era la forma tipica di messinscena della Passione? Gli
esperti sanno che la rappresentazione più famosa del tempo era la Passione
recitata al Colosseo dalla Confraternita del Gonfalone: uno spettacolo che
iniziato nel 1429, fu sospeso per motivo di ordine pubblico tra il 1522 e il
1524.
Si
tratta di un testo che divenne diffusissimo in tutta Italia, scritto da
Giuliano Dati con la collaborazione di Bernardo di Antonio e Mariano Particappa
e la cui ultima edizione è quella fiorentina del 1559.
Il
contenuto privilegia la metodologia del “cantare” con il proposito di
raggiungere le persone anche di livello sociale medio basso. E perciò si
escogita anche la particolare forma tascabile con un supporto iconografico ben
accurato. Un “libro da bisaccia”, a portata di mano, rivolto a “un vasto anche
se a volte misero pubblico, desideroso di letture e immagini e che era composto
all’ingrosso di mercanti, di artigiani, di popolani, di donne, di frati e
monache di città, di borghi, di campagne”.
Non
mi sono soffermato su questi dati della rappresentazione romana per futile
erudizione.
Mi
piace vedervi un filo tenue con il dramma laurinense della Schiodazione. Il Dati era insieme a Gaetano da Tiene, ideatore
dell’ordine dei Teatini, uno degli animatori se non uno dei fondatori
dell’Oratorio del Divino Amore a Roma, dedito alla santificazione del clero e
alle opere di carità. Non dimentichiamo che la famiglia Pignatelli era legata
ai Teatini: don Basilio, fratello di Scipione I era teatino e teatino era
Andrea Avellino, direttore spirituale di Scipione II e di sua moglie Vittoria.
Scipione II presentandosi come sponsor della manifestazione, non lo fa forse
anche per cari ricordi legati alla sua spiritualità teatina?
E
ancora: il testo del Dati era rappresentato dalla Confraternita romana del
Gonfalone, la stessa a cui nel 1597 sarà aggregata la confraternita laurinense
dell’Annunziata di Fontenovella (di cui aveva le stesse insegne e la stessa
attività di carità nell’istituire i maritaggi per le ragazze bisognose),
istituzione attiva a Lauro già dal 1580.
2.7.2 La
prevenzione della Chiesa
L’analisi
dei fatti deve chiedersi poi perché la Chiesa fosse titubante nei confronti di
questi misteri.
Scipione
Pignatelli accenna nella lettera al cardinale Carafa di un Sinodo napoletano.
Il Sinodo più prossimo agli eventi è quello Provinciale del 1576, presieduto
dal cardinale Mario Carafa ma la cui promulgazione avviene solo il 1° settembre
del 1580 ad opera dell’arcivescovo Annibale De Capua. Un capitolo si sofferma
sulle pie rappresentazioni, viste con una certa preoccupazione che traspare dal
monito sul decoro, e con la raccomandazioneche siano occasione di devozione e
non di risate e di svago.
Non
so quale sia stato l’esito della vicenda di Lauro. Aggiungo solo che sei anni
dopo, il vescovo Fabrizio Gallo,
successore di Filippo Spinola alla cattedra di Nola, continuerà a essere
sospettoso nei confronti delle pie rappresentazioni. Il suo Sinodo è perentorio
sull’argomento: ogni rappresentazione scenica della Passione sia proibita. La
proibizione è attenuata poi sullo stesso stile del Sinodo Provinciale: si
verifichi che conduca alla edificazione e alla pietà e tutto sia sottoposto al
previo esame del Vescovo.
Le prevenzioni del Borromeo contra
spectacula et chorea avevano fatto scuola anche a Napoli e a Nola!
2.7.3 La
migrazione dal sacro
Le
rappresentazioni sacre sembrano scomparire rapidamente e presto il loro posto
sarà preso da rappresentazioni decisamente profane.
La
Chiesa non gradisce in quel frangente di tempo che i laici trattino con
semplicità i temi sacri né tantomeno vuole che la Bibbia venga letta da tutti e
questo per evitare i problemi verificatisi qualche decennio prima in Germania.
Il
popolo napoletano e così anche il laurinense preferirà dirigersi verso
spettacoli più leggeri. E’ allora che nasceranno le cosiddette Armate; quelle di Piazza del Mercato a
Napoli, che erano anche lo spasso di Masaniello
e a Lauro l’Armata di San Sebastiano
descritta da Casimiro Bonavita.
In
ambedue le rappresentazioni, la napoletana e la laurinense, il canevaccio è
identico: l’armata cristiana come in una nuova Lepanto attacca e conquista la
roccaforte occupata dagli Islamici.
Un
tema guerresco decisamente, ma meno preoccupante per i reverendi padri.
2.8 I
protagonisti del dramma: i “contumaci e ostinati”
Infine
c’è un terzo interrogativo che la lettera di Scipione pone: chi sono i
protagonisti della Schiodazione?
I
suoi vassalli di Lauro. Non sappiamo se fossero membri di una compagnia
teatrale stabile o di una confraternita religiosa. Decisamente è da scartare
l’ipotesi dell’Accademia rievocata
dal Cappellano: il divieto delle Accademie fulminate dal vicerè don Pietro di
Toledo è ancora in vigore anzi è rinforzato ulteriormente.
Tutto
fa pensare che questi nostri antenati, per essersi rivolti alla mediazione del
marchese, tenevano molto allo spettacolo: avevano investito soldi e tempo.
Soprattutto quella era l’unica distrazione. La vita era sì frivola, ma solo per
i nobili. Il popolo doveva sgobbare e pagare gabelle, come puntualmente i
Parlamenti locali testimoniano con i loro ricorsi ai tribunali napoletani.
E
Scipione pur se si sta appena affacciando sulla scena di un relativo potere,
come poteva essere allora il baronaggio ai tempi del vicereame, sa che è meglio
tenere occupati i vassalli, specie quelli della Terra di Lauro, “contumaci e ostinati”
per ripetere le parole di Giambattista Lancellotti.
Perché
se i vassalli sono impegnati, hanno poco da pensare. Ma se si svegliano possono
sorgere guai, e magari, invece di cantare la Passione, cantano le gesta dei
delinquenti.
E
a suffragare quanto scritto vale la pensa rammentare in quegli anni il
furoreggiare di un brigante, Nicola Vallone, ricordato a decenni e decenni
dalla sua morte. Il Papaccio, un bottegaio del Mercato di Napoli, gli dedicò
una canzone: L’Historia della vita e
morte di Nicola Vallone capo de’ banditi nel Regno di Napoli… Significative
le battute iniziali:
Questo Nicola fu proprio nativo
Qua di Lauro,
cioè d’uno casale
2.9 Una prima
conclusione
La
ricostruzione della Quaresima del 1582 si ferma qui, con un carico di dati e di
conseguenze che in parte persistono ancora oggi.
La
Passione qui a Lauro è un fatto che va esternato, in modo pubblico; un dramma
che coinvolge le persone, ciascuna con le sue indoli e doti. Tutti vi sono
coinvolti: feudatario, poeti, popolo. L’evento della Redenzione è avvertito in
tutto il suo asse valoriale, a partire da quello spirituale, come l’esperienza
di Ascanio ha lasciato intravedere. Lauro ha così partecipato al dramma
coinvolgendo tutte le risorse che poteva avere a disposizione, umane e
spirituali.
E
se questa è la storia più antica, cosa accade in tempi più vicini?
A
rivelarcelo è l’esperienza dei Biancovestiti: è il dramma della Passione che
ora diviene movimento.
3. La Passione in movimento: il rituale dei Biancovestiti
Nella
premessa ho affermato che il dramma della Passione è stato solitamente espresso
tramite il ricorso alla modalità del movimento: quello interiore della
preghiera, ma anche quello esteriore del camminare e del cantare. Sono modalità
che ritroviamo presenti anche a Lauro e in genere nel Vallo nel cosiddetto “Rituale
dei Biancovestiti”, Ed è dalla osservazione di questo rituale che deve partire
la riflessione storica, perché solo tramite l’osservazione fenomenologica del
dato si riesce a percepire il denso orizzonte valoriale che il Venerdì Santo
attualmente significa per Lauro.
3.1 La struttura
del Rituale: dato antropologico e religioso
Il
rituale dei Biancovestiti consta di alcuni elementi che nella loro struttura
portante sono fissi da circa cento anni nonostante le evoluzioni superficiali e
i cambiamenti verificatesi dagli anni ’70.
Il
costante ripetersi di elementi fissi è ovviamente necessario nella struttura
rituale. Il rito è per sua stessa natura consuetudinario e codificato, anche se
non necessariamente in forma scritta.
Il
rituale dei Biancovestiti consta essenzialmente di tre momenti: preparazione,
processione e canto.
La
preparazione è anzitutto remota, coincidente con le prove dei canti che nel
passato – e mi sembra ancora oggi – avvenivano nella chiesa della Pietà.
Segue
poi la preparazione immediata, che ora, con il ricorso alla motorizzazione si
verifica nelle ore mattutine mentre fino alla fine degli anni ’60 era in ore
antelucane.
Ed
è questa preparazione immediata a immetterci nel fulcro valoriale del Rituale
dei Biancovestiti perché con essa - a
livello antropologico - si ripete un autentico
“rito di passaggio”.
I
Cantori rivestendosi del camice bianco e del velo si immedesimano visibilmente
in un’azione diversa dal quotidiano e quest’azione diviene perciò drammatica
(c’è un ruolo da recitare) e sacra (è un’azione speciale e separata dalle altre
solite).
Il
passaggio verso una realtà diversa si esplicita completamente nell’atto
processionale.
I
Biancovestiti infatti escono da Lauro, il proprio paese, raggiungendo i paesi
viciniori, nell’attesa di poter rientrare nel proprio luogo.
Non
sfugge a nessuno la portata simbolica di questa processione che è anche “egressione”
ed esodo ma che è soprattutto immersione nel sacro, in un momento fascinoso e
tremendo.
Inconsapevolmente
il procedere extra moenia dei
Biancovestiti ripete il motivo arcaicissimo del passaggio: l’individuo nelle
società arcaiche era escluso dal paese e doveva eseguire riti e attuare alcuni
comportamenti. E questa era la stessa prassi che la Chiesa chiedeva ai suoi
penitenti nell’espulsione dei peccatori nel giorno iniziale della Quaresima.
Usando
ancora l’osservazione antropologica emerge che l’uscire dal proprio paese dei
Biancovestiti è un uscire per ritornarvi, attesi e accolti dai concittadini e
dai familiari che partecipano alla loro performance con la sosta in piazza o
nel tempio e che passa per l’approvazione simbolica dell’ascolto e
dell’applauso.
La
disaggregazione mattutina ora, a metà del giorno, quando già la luce meridiana
è ormai sopraggiunta diviene riaggregazione.
Più
ancora: questa inconsapevolezza antropologica del rito ha una eccezionale
contiguità con lo stesso dramma di Gerusalemme. Anche Gesù dovette lasciare il
grembo materno di Sion, dove era la casa di suo Padre, tanto da essere
crocefisso fuori delle mura della città, quella città dove tornerà alla luce
del nuovo giorno primaverile di Pasqua, spalancando le porte del Cenacolo e
ricevendo l’adesione credente dei suoi amici.
Infine
l’arcaicismo sopravvive in modo udibile oltre che visibile: è l’arcaicismo letterario
e melodico dei canti.
Siamo
dinanzi a un rituale di amplissima portata che richiede da parte di noi tutti
profondo rispetto e profonda attenzione.
3.2 Intorno alle
probabili origini del Rituale
3.2.1
Processioni a Lauro
Ma
cosa si può affermare di questo rituale sul piano storico? Purtroppo a livello
documentario dobbiamo confrontarci con il vuoto più assoluto. Le uniche
processioni laurinensi attestate dai documenti conservati presso l’Archivio
Storico Diocesano di Nola sono le due patronali (gennaio ed agosto), il Corpus
Domini, le Rogazioni e la Santa Croce di maggio.
La
testimonianza riferita dagli anziani circa la presenza dei Biancovestiti non
permette di risalire oltre cento, cento venti anni.
Non
aiutano nemmeno le rassegne fatte a fine ottocento dal Torraca
né quella più recente del 1926 – 1928 da Antonio D’Amato.
Emblematico
proprio lo studio di D’Amato che ripercorre tutti i riti della Passione
dell’Irpinia senza citare il nostro. E se il Vallo è citato con Moschiano (su
informazioni del dott. Maselli) e Quindici, ciò è in riferimento solo alle
leggende della Madonna della Carità e della Madonna delle Grazie.
E
se leggendo questi studi si scorge una rassomiglianza tra i riti di Vallata e
quelli di Lauro, l’informazione non aiuta perchè Lauro e Vallata sono
lontanissime sia geograficamente che storicamente.
La
risposta può venire solo osservando ancora una volta in modo sommario il
rituale, facendone emergere il dato antico per poi avanzare in maniera
ponderatissima una ipotesi.
Per
farlo prendo in considerazione solo tre e elementi che hanno il sapore
dell’arcaico: le croci processionali, il percorso e i canti.
3.2.2 La forma
della Croce processionale
Le
croci adoperate sono tipicamente processionali e unicamente dedicate alla Passione.
Sulle loro braccia sono fissate i cosiddetti instrumenta Passionis: scala, lancia, guanto ferrato, corona, a
volte il gallo, la spugna. L’altro
simbolo spesso presente è il sudario.
Il
procedere in processione con tali strumenti a livello documentario è attestato
solo dal 1670 quando Antonio Bulifon, un francese trasferitosi a Napoli, annota
nei suoi Diari le cose che va
vedendo. E nel 1670 appunto parla di una processione nella sera del Giovedì
Santo che si snoda per i quartieri napoletani con figuranti che reggono gli
strumenti della Passione.
Purtroppo
non aiuta nella ricostruzione storica dell’origine del Rituale la forma delle
Croci adoperate: non sono croci di confraternite che invece sono caratterizzate da una forma
semplice con tre anelli alle estremità superiori delle braccia per fissare il
drappo dell’associazione. Se ci fossimo imbattuti in questi anelli si sarebbe
potuto pensare a un rito anteriore al Settecento, in quanto sulla presenza
delle Confraternite a Lauro e sulla loro attività siamo abbastanza documentati
dalla seconda metà del XVI secolo.
3.2.3. Il
percorso seguito
Occorre
allora considerate il percorso che i Biancovestiti seguono. I paesi raggiunti
dalla processione sono undici, costituenti quasi una sorta di suburbio di Lauro.
E
questo dato può forse rivelare qualcosa di antico: su undici centri raggiunti,
otto costituivano il “Terzo di Lauro”, distanti non più di una o due miglia da
Lauro. Questi “casali” erano gli stessi implicati – tramite le loro
Confraternite - nella processione di San
Sebastiano a gennaio.
Sappiamo
che nel 1837 venne codificato un accordo per ordinare meglio la processione di
gennaio: tale accordo prevedeva che tutti i paesi del Terzo partecipassero alla
processione. Erano così previste le confraternite di Quindici, Migliano,
Taurano, Pignano, Bosagro, Fontenovella e Fellino. L’accordo venne rivisto nel
1945 e perdurò fino al 1965, quando la presenza delle Confraternite, già
logorate da motivi di campanilismo e di inerzia, ebbe il tracollo definitivo
con la Guerra dei Santi.
Questo
dato storico ci dice che in epoca antica esisteva una mentalità “comunitaria”,
esattamente come è stata riscoperta negli ultimi ventenni. I paesi circostanti
Lauro e Lauro con essi si sentivano uniti sia civilmente che religiosamente.
Ma
la presenza nel percorso processionale di Pago, Moschiano, Beato e Ima rende
inutile il ricorso al ricordo della Confraternite.
3.2.4 Un
influsso oratoriano?
Viene
da pensare allora che questa processione non sia altro se non un’eco semplificata
della Visita alle sette Chiese
istituita da San Filippo Neri nella Roma di fine Cinquecento e che presto si
diffuse come tipica pratica di pietà della Passione, favorita dalla capillare
presenza oratoriana e codificata anche nei più diffusi manuali di pietà
popolare come il Riva.
D’altronde
il culto di san Filippo era diffuso a Lauro. Fin dal XVIII secolo il clero
laurinense si riuniva ogni mercoledì sotto il suo nome nel cosiddetto Oratorio
di San Filippo (soppresso nel 2008), Oratorio che non era solo un luogo fisico
ma un’occasione di preghiera e di studio.
E
il culto di san Filippo era diffuso anche nel Vallo: da Domicella a Quindici
tanto che qui Giovanni Cosenza lo raffigurò nel Trionfo della Vergine dipinto
nel 1749 (se nel vecchio prete dal collare e dalla barba tipici, ma senza cuore
tra le mani, sostituito da un giglio si può ravvisare la tipica iconografia
filippina).
Eppure
anche l’influenza della spiritualità filippina va scartata.
Il
culto del Santo era infatti ristretto al solo clero, mentre le processioni del
Venerdì Santo hanno sempre visto come marginale la presenza del Clero.
La
processione del Venerdì Santo sembra aver avuto sempre un carattere laicale, e
ne è prova il fatto che la sua codificazione e la sua tradizione documentaria è
completamente assente: i paragrafi dei “pesi” e degli “oneri” dei preti nei
processi beneficiali e nelle Visite pastorali contemplano tanti obblighi ma
nessuno inerente a una processione della Passione.
3.2.5 L’ipotesi
più semplice
Forse
aiuta e vale sempre l’ipotesi più semplice: la processione nasce come una
semplice processione ai Sepolcri allestiti nelle chiese circostanti, e questa
processione veniva accompagnata da canti dedicati alla Passione.
3.3 I canti
eseguiti
Un
terminus ante quem sull’origine della
Processione del Venerdì Santo oltre cui non risalire può essere attinto
cercando l’epoca di composizione dei testi cantati e i loro autori.
I
testi sono versi in forma metrica, cantati fino a qualche anno fa anche nelle
vie crucis quaresimali che si svolgono in chiesa e insieme all’alfonsiano Gesù mio e allo Stabat di Jacopone costituiscono i più tipici canti popolari
dedicati alla Passione.
3.3.1 La Via
Crucis e il suo autore: Luigi Antonio Locatelli
L’attribuzione
a Pietro Metastasio è una falsità smentita dallo stesso poeta cesareo nella
lettera a Luigi Antonio Locatelli, il vero autore dei versi cantanti a Lauro e
altrove, e scritta l’8 marzo 1749.
La
lettera è chiarissima e lascia presagire quanto accaduto.
A
Bologna viene pubblicata una Via Crucis, devozione che in quegli anni stava
avendo una diffusione strepitosa anche mediante l’attività apostolica del
francescano Leonardo da Porto Maurizio. Questa via crucis poi solitamente era
accompagnata da una canzoncina a chiusura di ognuna delle meditazioni. La
canzoncina spesse volte non era solo lo Stabat
di Jacopone ma un componimento poetico conforme alla purezza arcadica di quel
lembo temporale settecentesco.
L’editore
bolognese, per piazzare meglio il prodotto, o forse anche in buona fede, non
scorgendovi il nome dell’autore, attribuiva i versi al più grande poeta di
allora, Pietro Metastasio.
Nel
frattempo il testo si diffondeva e capitava anche tra le mani del Locatelli,
che risentito se ne lamentava con il Metastasio.
A
sua volta Metastasio rispondeva manifestando il suo rammarico e l’estraneità al
fatto, riconducibile alla semplice intraprendenza dell’editore.
E
non sarà l’unica volta che Metastasio si vedrà attribuire questa Via Crucis:
una ulteriore smentita la ritroveremo nel 1779. Questa volta a pubblicarla era
stato l’editore Bettinelli a Venezia.
Ma Locatelli era ormai vecchio, stanco e prossimo alla morte, e quindi non più
in grado di far valere le sue ragioni.
Nato
infatti a Bologna nel 1711, era divenuto vincenziano, iniziando una carriera di
predicatore itinerante, soprattutto a Roma e nella sua campagna, dove risiede
tra il 1741 e il 1747.
Proprio
in quegli anni ad opera del futuro Leonardo di Porto Maurizio si stava diffondendo
la pratica della Via Crucis che dal Colosseo, officiata lì dai Confratelli Amanti
di Gesù e Maria, e che man mano andava
spandendosi in tutta Italia.
Esperto
di missioni ma anche di poesia (era infatti membro dell’Arcadia e dell’Accademia
degli Inestricati) decise di scrivere le strofe, convinto come ogni buon
missionario della importanza del canto inteso come mezzo di catechesi, capace
di giungere a ogni classe di persone.
E
così, mentre la Via Crucis si diffondeva, con essa si diffondevano anche i
versi del Locatelli, ma senza la menzione del suo nome.
Né
potette fare altro: i continui spostamenti missionari da Roma, a Genova a Venezia
non gli permettevano di fare granchè. Solo quando lasciò la Congregazione della
Missione nel 1754, ritornato a Bologna, dove divenne prevosto di Santa Maria
Maggiore, potè pubblicare la sua Via Crucis, ma con una tiratura così limitata
e in formato così piccolo che al momento in tutta Italia ne è rimasta una sola
copia.
E
che l’autore fosse lui e non il Metastasio era notorio già da allora. Si
preferiva però dissimulare anche per convenienza. Un esempio lo abbiamo
dall’alcantarino Agostino Pacifico di Maria Addolorata che ammetteva di aver
ripubblicato a Napoli la Via Crucis del Locatelli nel 1850 conservandone
l’errata attribuzione metastasiana per semplice quieto vivere, altrimenti i
napoletani – cito testualmente . gli avrebbero “gridato la croce addosso”.
3.3.2 La
versione poetica dello Stabat e il suo autore
La
Via Crucis del Locatelli era affiancata anche da una versione poetica dello
Stabat:
Stava Maria dolente
senza respiro, e voce,
mentre pendeva in croce
del mondo il Redentor.
E nel fatale istante
crudo materno affetto,
le trafiggeva il petto,
le lacerava il cor.
Forse
è proprio questo canto scomparso dal repertorio innico della processione a
metterci sulla buona strada circa la datazione del nostro rito.
Il
testo è opera del carmelitano piemontese Evasio Leone, morto nel 1847, e che
iniziò la sua produzione poetica nel 1796 con la versione poetica del Cantico
dei Cantici in chiarissimo stile metastasiano. D’altronde anche lui era un
Arcadico, come già il Locatelli.
La
sua produzione poetica continua poi con le “Lamentazioni
di Geremia adattare al gusto italiano”, edite a Torino nel 1795. E
nell’appendice di questa opera, a p. 75, ritroviamo il Pianto di Maria, cantato anche a Lauro.
E
così, interrogandoci sulla data dei canti ci siamo gradualmente avvicinati alla
verità; i testi cantati hanno datazioni e autori precisi con due limiti
cronologici; non prima del 1747 e non oltre il 1798. La processione, sulla base
del testo dei canti non può essere più antica di queste due date.
3.3.3 La melodia
eseguita
Resta
l’ultimo dato da considerare: l’analisi della melodia eseguita.
A
livello di canto popolare a Lauro sono attestate cinque canzoni. Il
conosciutissimo Inno di San Sebastiano, questo del Venerdì Santo e tre canti
scomparsi, legati al culto di Montevergine.
Il
primo è legato alla apparizione della Madonna di Montevergine presso l’abbazia
di San Giacomo, un fatto avvenuto tra il settembre e l’ottobre del 1925. Un
altro è la canzone classica della Juta
al Santuario, dalla modalità antica, su parole recenti e la cui origine si
perde con i riti processionali verso il Santuario, già attestati dal Costo
nella sua opera su Montevergine, scritta negli anni della permanenza presso i
Pignatelli. L’ultimo canto è la cosiddetta Lettera,
una storia tenerissima di un giovane scagionato da una colpa per intercessione
della Madonna. I tre canti verginiani non sono più attestati dagli anni ’60 del
secolo scorso.
Ma
qui dobbiamo interrogarci se anche la modalità dei canti del Venerdì Santo ci
dica qualcosa circa la datazione dei riti della Passione.
Non
ho purtroppo cultura musicale e perciò pochi giorni fa ho richiesto una breve
consulenza al prof. Galliano Ciliberti, docente di Storia della Musica al
Conservatorio di Monopoli e di Musicologia alla Sorbonne di Parigi. Mi ha
risposto l’altro ieri con una lettera che vi sottopongo:
Caro Professore,
ho ascoltato i
video musicali del Venerdì Santo di Lauro. Mi sembra una melodia semplice ma
non banale. La semplicità è dovuta dal fatto che poteva essere intonato
polifonicamente secondo l’antica prassi del cantus planus binatim descritta già
da Salimbene nella sua Cronica.
Essendo un canto
processionale, alcuni fratelli intonano la melodia base e gli altri
improvvisano il discanto ovvero una voce per terze e quarte.
Ed è quanto
avviene a Lauro: come in Salimbene il frater Vita fungeva da tenorista e
l’altro frate biscantava. Pratica arcaizzata che vive ancora nel Settecento
perché la cultura alta man mano si andava stratificando nei ceti più bassi.
A tal riguardo
ti invito a studiare il fenomeno lasciandoti guidare dai suggerimenti di
Lombardi Satriani.
Fin
qui la lettera. E con essa tute le ipotesi sui Biancovestiti sono cadute di
botto.
Il
testo è sì recente, ma la melodia è forse del 1200! Insomma: il mistero resta.
Tutto sembrava chiaro e tutto all’improvviso ci è fuggito di mano ancora,
piombato nel misterioso tempo medievale.
4. La memoria del sangue
Una
soluzione all’enigma c’è. Il mistero del Venerdì Santo a Lauro non lo svela né
Costo, né Vittoria Colonna, né il Locatelli o il Leone.
Il
mistero del venerdì santo lo conosceva
un uomo di Lauro, Domenico Bonaventura Acerra, e sarà lui a svelarci tutti i
segreti di questo rito.
Domenico
Bonaventura Acerra è nato a Lauro il 26 dicembre del 1926 e qui ha concluso i
suoi giorni il 23 maggio del 1985. Venturo, come tutti lo conoscevamo, aveva
passato tutta la vita in campagna lì a Fontenovella. Davanti al suo sguardo
erano scorsi tutti i cambiamenti di Lauro, come per tutti i giovani della sua
generazione.
Aveva
visto i tedeschi accamparsi lì dove sarebbe sorta la fabbrica di Imparato, e
poi aveva visto giungere gli inglesi, tirando un sospiro di sollievo perché la
minaccia di minare il paese era passata. Come i gattopardi di Lauro fremette
nel vedere la Guerra dei Santi e come loro aveva visto lo scemare delle
tradizioni e il passare inarrestabile di volti e di voci.
Tutto
stava andando via. E venne il terremoto e Venturo e i suoi amici si adattarono
ancora alla nuova situazione. Non andavano via solo volti e voci ma anche il
paesaggio da cartolina diveniva a tratti irriconoscibile.
Solo
in un preciso giorno dell’anno Venturo sentiva tornare in sé gli anni verdi
della giovinezza. Era un giorno che subito andava cercando appena il nuovo
calendario gli passava tra le mani.
Era
il venerdì santo, il giorno più atteso, il giorno più amato.
E
arrivava quel venerdì santo, puntuale.
Venturo
e tutti i nostri padri e tutti i nostri nonni sono insonni in questa notte. Sono
le tre. Puntuale il gallo ha già cantato, come già nella primaverile notte di
Gerusalemme.
Il
passo è svelto: Venturo quasi corre ma con il pensiero è già giunto in piazza
prima ancora di chiudere la porta di casa. E sui gradoni della chiesa ci sono gli
altri: sono ancora loro, i nostri padri, i nostri nonni. Uno sguardo veloce, a
contarsi.
Rapide,
le mani svolgono il pacco finora tenuto
sotto le braccia: il camice infilato, il cingolo, il velo, i rovi pressati
sulla testa.
Il
crocifero già si allinea, con la croce ora posata sulle spalle, ora portata
diritta.
Salgono
per il lagno di Preturo arrampicandosi tra i rovi mentre il camice è rialzato.
Li
scorgiamo con gli occhi: questi nostri padri respirano l’aria fresca della
notte. A pieni polmoni. La sentono sulla pelle. E attraversano i sentieri di
Ima mentre l’umido dell’alba ormai li avvolge e il primo raggio di sole li va
lambendo.
Sono
giunti. C’è silenzio.
Perché
questa processione che Venturo e gli antichi Gattopardi fanno è fatta di rumori
riconoscibili: i passi cadenzati, le voci che si attenuano, il silenzio che
scende mentre tutto si va svegliando.
Venturo
vede la croce abbassarsi tre volte davanti al portale della Chiesa. Sa che il
momento è giunto: tocca a lui, a lui che è la prima voce iniziare:
Sento l’amaro pianto
della dolente madre…
E
subito la seconda voce si adagia sulla sua e la terza li rincorre, e poi tutte
le altre, proprio come diceva Salimbene.
Cantano
dell’amore di una madre per il figlio che sta morendo. E dell’amore di un figlio
che sta lasciando la madre.
E
ripensano alle loro madri, al loro essere figli di una storia che non sanno
quanto sia antica, ma che sentono scorrere nel sangue, quel sangue che è la
loro vita.
Perché
è la loro memoria,, che dura finchè durerà il loro respiro, finchè le notti
inseguiranno i giorni, finchè la più bella notte non precederà il più bel
giorno..
Venturo
e i suoi compagni sono contadini che non sanno nulla né di Metastasio né di
Vittoria Colonna e di tutti i grandi nomi che ho citati.
E
dal cielo ora staranno ridendo alla grande dopo aver sentito le mie parole.
Perché
solo questi Gattopardi della vecchia Lauro conoscevano tutto il mistero del
Venerdì Santo.
E’
una storia fatta di assoluta semplicità, semplice come i protagonisti, semplice
come la loro fede, capace di resistere a tutto.
E’
finita la Via Crucis del Marinosci, è scomparsa la processione delle
Confraternite a gennaio, scomparse le pignatelle. Tutto è andato via ma solo
questa festa resiste indenne.
I
nostri vecchi Gattopardi ne avevano intuito il mistero, e adesso lo sussurrano
a noi, iene e sciacalletti di oggi.
Ed
è a Venturo e agli antichi Gattopardi di Lauro che stasera va la mia e vostra
gratitudine per averci finalmente svelato la vera storia del Venerdi Santo a
Lauro.
Severino
Santorelli,
24 marzo 2018.
Id, in Op. cit., p. 15 b.
I due testi sono preceduti da
una introduzione dello stesso Costo alle sue Rime spirituali: "Il primo
quaternario di questi due sonetti è della Marchesa di Pescara Vittoria Colonna,
e i finimenti dell'Autor della suddetta Canzone". I due sonetti sono infatti
preceduti da una Canzone sopra l'effusione del Sangue di nostro Signore,
"fatta sopra una immagine di un Cristo ignudo a sedere sopra una pietra,
incoronato di spine, e tutto impiagato, e nel contorno v'erano gli otto
misteri, ne' quali sparse il suo preziosissimo sangue". Cfr. Le lacrime di
San Pietro di Luigi Tansillo... con ... un discorso di Tommaso Costo, In
Venezia, appresso Francesco Piacentini, 1738, p. XXX.