giovedì 2 maggio 2013


Flash mob

Per la terza volta nel giro di un mese mi imbatto in iniziative pastorali di varie diocesi tutte intitolate “Flash mob per…”. Ora è un canto, ieri un ballo e domani sarà un happy hour, giovanile e a tema. E per la terza volta mi sono fermato a riflettere su tali attività. Con un pizzico – ahimè, lo riconosco – di scetticismo. Perché innanzitutto non capisco di per sé molte cose, - vuoi per chiusura mentale ma anche e soprattutto per ignoranza – e perché ho la brutta abitudine di riflettere molto sulle parole, nel loro contesto filologico innanzitutto. E il riflettere molto spesso crea problemi perché la propria idea quasi mai è simile a quella altrui.
Flash mob: mobilitazione lampo, raduno fulmineo. Questi potrebbero essere i concetti che si nascondono dietro ai due termini inglesi, una delle lingue più duttili che esistano. Basta leggere le cronache per sapere la storia del termine, nato ormai dieci anni fa in ambiente anglosassone e ora arrivato in Italia. Nulla di nuovo se una moda ormai decennale arriva da noi così in ritardo, e nulla di nuovo se tutti si entusiasmano per una cosa per altri contesti direi quasi “passata” ma qui nuova, anzi, di più, a la page!
E rileggendo le cronache impariamo anche che il flash mob nasce come “coreografia” quasi sociologica, con vari fini: riunione, aggregazione, manifestazione.
E se ormai il termine è alla moda è ovvio che non poteva sfuggire agli operatori pastorali. Anzi: se per la terza volta in un mese mi imbatto nel termine applicato alla pastorale, allora è in atto l’ulteriore tentativo di monopolizzazione da parte della Chiesa di parole o concetti intramondani.
Nulla di nuovo: la Chiesa, vera esperta di umanità, nel corso del tempo ha saputo dialogare con i contesti culturali più diversi ed estremi. Come dimenticare i primi Apologisti che sfidavano l’impero e i tanti Celso? Anzi Giustino parlava di semina verbi, di spolia Aegyptiorum: tutto di buono la cultura antica aveva era autenticamente cristiano.
Ma un flash mob può paragonarsi, pensando a questo dialogo arduo e nobile colla cultura mondana alle antiche Apologie, o che ne so a Möhler o alle corrispondenze di Giuseppe De Luca?
No, decisamente. Non perché quella era cultura alta e questa sia bassa. Ma perché a mio dire il progetto che anima le varie iniziative citate è completamente diverso. E il termine flash lo dice chiaramente.
Si tratta di una iniziativa lampo, fulminea, rapida nel verificarsi e ancor più veloce nel concludersi.
Mi sono chiesto se il vangelo registri una sorta di flash mob paragonabile a questi in voga oggi nella pastorale.
La scena evangelica del Tabor è molto suggestiva: il Signore rapidamente si trasfigura. Ammantato di luce, dalle vesti più candide della neve, superiori al biancore che ogni lavandaio sa produrre. E in Pietro e Giovanni è forte il desiderio di fermarsi: di più, sostare. Dimorare in tre tende, per contemplare la scena a lungo. Ma il Signore fa capire che il tempo della visione è finito: occorre tornare alla normalità.
Un’ulteriore flash mob è tutto l’apparire del Risorto, interpretato da quel “noli me tangere, perché ancora non sono salito al Padre” e che trova a mio dire il culmine alla tavola di Emmaus: mane nobiscum, quia advesperascit… intrattieniti ancora con noi Signore perché il sole tramonta…
Questi flash mob evangelici lasciano pregustare le cose future. Sono simili ai nostri assaggi culinari, o ai trailers cinematografici. Muovono la fantasia e la curiosità, il desiderio e la conoscenza. E perché lasciano pregustare le cose future hanno anche un evento qualitativo altissimo. Proiettano infatti il tempo umano nel tempo divino, quello della pienezza e della definitività. Il Tabor lascia intravvedere la Passione ed Emmaus lascia pensare al banchetto del regno.
E i nostri flash mob? O differens receptio!, cantano ogni pomeriggio i frati del Santo Sepolcro.
C’è a mio dire una differenza forte. Quella di non essere eventi significativi ma momenti normali di una pastorale ormai stanca che corre lungo i binari disimpegnati di una eccessiva mondanizzazione.
Può un canto o un ballo di frati o l’invasione rapida di una strada esaurire l’evangelizzazione? Qual è la qualità del messaggio che si vuole trasmettere? Confesso di non capirlo né saperlo. E vorrei invece essere sinceramente illuminato su tali cose.
Ma non trovo risposte. E allora sorge il dubbio di una pastorale ripeto improvvisata, che si accontenta di poco e che rincorre il mondo lasciandosi ammaliare ma senza trasmettere originalità. Perché l’improvvisazione è proprio quando si progettano attività che dopo non lasciano nulla di concreto, quando si è animati dal fare ad ogni costo qualcosa purchè la si faccia, e purchè l’ultima agenzia di news ne parli, con tanto di interviste degli organizzatori e video su youtube da rivedere alla pizzata in casa degli amici.
Che alternativa offrire? Per me rimane sempre affascinante Paolo quando parla di stoltezza cristiana e sapienza mondana. Le pagine esegetiche si sprecano, e non saprei nemmeno interpretarle. Ma la stoltezza e la sapienza trovano in lui la sintesi nella croce. Ecco: io mi attendo una pastorale che punti all’essenziale, a ciò che più conta. Alla croce. Alla fatica della predicazione, quella del contatto vivo con le persone e che si intrattiene, anzi indugia davanti al silenzio della croce.
E mi attendo una pastorale che punti in alto e oltre l’alto: al cielo. A quel tempo ultimo verso cui il nostro tempo è diretto.
Mi rendo conto che sono pensieri marginali di un uomo marginale come me. E la marginalità è sempre un problema: e perché scomoda, in quanto si conforma poco al pensiero dominante, e perché decisamente più solida (meglio dire pesante) e quindi difficilmente galleggiante nella Liquid modernity.

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