Una
novena di Natale
Negli
anni ’90 in quelle pagine suadenti ma decisamente tormentate di “Credere di
credere” Gianni Vattimo dichiarava di girare molte chiese di Torino
proprio il 16 dicembre, per riascoltare le note della Novena di Natale, senza
purtroppo riuscirci.
Anche
io oggi, complice un blocco pomeridiano della metropolitana, ho deciso di fare
un giro delle Basiliche romane nel tentativo di ascoltare quel motivo antico e
caro. Nulla da fare. La Novena di Natale è scomparsa del tutto, almeno sembra.
Tornato
poco fa ho riaperto il Cantorino degli anni di Convitto. E una folla di ricordi
si è accalcata.
E’
sera: la cappella è nella penombra. Le luci sono soffuse, quasi “silenziate”.
Ardono solo i ceri, mossi da un soffio clandestino di vento intrufolatosi dagli
alti finestroni. E le fiammelle si muovono gioiose, e quasi pare che con esse
si muovano le ali maestose degli angeli capialtare, di quelli che misteriosamente diresti
scappati dallo scalpello del Bernini e lì volati, in quel casermone nolano.
Al
di sotto dell’altare la corona d’avvento è già mezza appassita. Tra qualche
giorno sarà tolta di mezzo e lascerà spazio alla mangiatoia: una pietra
settecentesca scardinata e salvata da uno dei tanti monasteri benedettini che i
Savoia avevano soppresso.
Dall’alto
della cantoria l’improvvisato organaro fa un miscuglio intollerabile di
musiche: Albinoni si alterna a Bach, e quest’ultimo sembra rincorrere
Frescobaldi. Ma come sono care ora quelle melodie…
La
campana è suonata. In piedi esce il Padre Terrore, come qualcuno lo chiamava.
Ha il piviale delle grandi occasioni. Al centro del presbiterio il leggio:
Acolitus canit.
“Regem
venturum Dominum…”. Con gli anni
quell’inizio della Novena diventava nostro: ci si cominciava a guardare negli
occhi, con l’emozione e la consapevolezza che ormai era Natale…
Dal
16 al 20 durava la novena: prima uno, poi due, poi tre, infine quattro cantori,
a sottolineare il crescendo della festa e il suo solenne arrivo.
Il
polisalmo e il capitolo, l’Inno e le antifone O, quelle di cui mai ci si
stancava di leggere la storia dal Martene che per l’occasione era preso dalla
biblioteca e portato al piano nobile per essere sfogliato in quelle stesse stanze che già furono del fondatore del
Convitto nonchè proprietario del libro.
E
come voleva la prassi napoletana – ma ormai universale – codificata già dalla
Praxis secentesca del Pescara Castaldo, si chiudeva colla benedizione del
“Venerabile”.
Terminava
così questa novena che altro non era se non un ufficio, un parvum ideato
proprio nella Torino che sarà di Vattimo, da un Padre della Missione. Uno dei
tanti Parvum: come quello fortunato dell’Immacolata, ascrivibile forse al
Rodriguez (ma altri aggiungerebbero nomi diversi) o di ogni santo che si
rispetti.
Solo
che questa Novena, ed ecco la differenza, è l’ufficiatura che più ha resistito:
dal 18 secolo fino agli anni ’70. Entrata prepotentemente nei convitti e nei
seminari dia lì è dilagata nelle parrocchie e in ogni casa religiosa, per poi
scomparire quasi del tutto.
Non
conosco le ragioni, né le voglio sapere. So solo che con essa è scomparsa per
me un’aria di festa e un mezzo bello e prezioso per attendere il Natale. Perché
almeno qualcuno dei miei amici lo attendeva nella preghiera, e il Rorate che
chiudeva la “funzione” esprimeva meglio di ogni parola qui scritta quelle sere
invernali che oggi so definire veramente belle. Perché era la Novena di Natale.
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