lunedì 16 dicembre 2013


Una novena di Natale

Negli anni ’90 in quelle pagine suadenti ma decisamente tormentate di “Credere di credere”  Gianni Vattimo  dichiarava di girare molte chiese di Torino proprio il 16 dicembre, per riascoltare le note della Novena di Natale, senza purtroppo riuscirci.
Anche io oggi, complice un blocco pomeridiano della metropolitana, ho deciso di fare un giro delle Basiliche romane nel tentativo di ascoltare quel motivo antico e caro. Nulla da fare. La Novena di Natale è scomparsa del tutto, almeno sembra.
Tornato poco fa ho riaperto il Cantorino degli anni di Convitto. E una folla di ricordi si è accalcata.
E’ sera: la cappella è nella penombra. Le luci sono soffuse, quasi “silenziate”. Ardono solo i ceri, mossi da un soffio clandestino di vento intrufolatosi dagli alti finestroni. E le fiammelle si muovono gioiose, e quasi pare che con esse si muovano le ali maestose degli angeli capialtare,  di quelli che misteriosamente diresti scappati dallo scalpello del Bernini e lì volati, in quel casermone nolano.
Al di sotto dell’altare la corona d’avvento è già mezza appassita. Tra qualche giorno sarà tolta di mezzo e lascerà spazio alla mangiatoia: una pietra settecentesca scardinata e salvata da uno dei tanti monasteri benedettini che i Savoia avevano soppresso.
Dall’alto della cantoria l’improvvisato organaro fa un miscuglio intollerabile di musiche: Albinoni si alterna a Bach, e quest’ultimo sembra rincorrere Frescobaldi. Ma come sono care ora quelle melodie…
La campana è suonata. In piedi esce il Padre Terrore, come qualcuno lo chiamava. Ha il piviale delle grandi occasioni. Al centro del presbiterio il leggio: Acolitus canit.
“Regem venturum Dominum…”.  Con gli anni quell’inizio della Novena diventava nostro: ci si cominciava a guardare negli occhi, con l’emozione e la consapevolezza che ormai era Natale…
Dal 16 al 20 durava la novena: prima uno, poi due, poi tre, infine quattro cantori, a sottolineare il crescendo della festa e il suo solenne arrivo.
Il polisalmo e il capitolo, l’Inno e le antifone O, quelle di cui mai ci si stancava di leggere la storia dal Martene che per l’occasione era preso dalla biblioteca e portato al piano nobile per essere sfogliato in quelle stesse  stanze che già furono del fondatore del Convitto  nonchè proprietario del libro.
E come voleva la prassi napoletana – ma ormai universale – codificata già dalla Praxis secentesca del Pescara Castaldo, si chiudeva colla benedizione del “Venerabile”.
Terminava così questa novena che altro non era se non un ufficio, un parvum ideato proprio nella Torino che sarà di Vattimo, da un Padre della Missione. Uno dei tanti Parvum: come quello fortunato dell’Immacolata, ascrivibile forse al Rodriguez (ma altri aggiungerebbero nomi diversi) o di ogni santo che si rispetti.
Solo che questa Novena, ed ecco la differenza, è l’ufficiatura che più ha resistito: dal 18 secolo fino agli anni ’70. Entrata prepotentemente nei convitti e nei seminari dia lì è dilagata nelle parrocchie e in ogni casa religiosa, per poi scomparire quasi del tutto.
Non conosco le ragioni, né le voglio sapere. So solo che con essa è scomparsa per me un’aria di festa e un mezzo bello e prezioso per attendere il Natale. Perché almeno qualcuno dei miei amici lo attendeva nella preghiera, e il Rorate che chiudeva la “funzione” esprimeva meglio di ogni parola qui scritta quelle sere invernali che oggi so definire veramente belle. Perché era la Novena di Natale.


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