domenica 29 dicembre 2013


I soldi “sacramentati”
E’ la vigilia di natale del 1955. Don Rocco ha 35 anni e dal 5 agosto è giunto a Lauro da Napoli. Proveniva dall’istituto di via Gianturco dove insegnava, e  probabilmente era  a bordo della Carrella, la stessa ditta che già un’ interrogazione parlamentare del 1948 auspicava effettuasse il servizio pieno nel nostro paese.
Sono mesi strani per don Rocco: deve conoscere una realtà diversa da quella pugliese. Non è più ad Andria  né a Napoli. E’ un paese particolare dal punto di vista religioso. Lauro per lunghi anni aveva visto l’elegante figura di don Alfredo Frezzaroli e poi la gioviale vivacità di Don Falcone.  Vivevano ancora il maestro Don Frazzitta di Ima e il parroco santo di Migliano, Don Ferrara. A Taurano dal 1914 o forse prima il roccioso Abate Borrasi si imponeva colla sua fermezza ascetica mentre don Matteo Sperandeo era già vescovo ormai da anni, tra Nola, Muro e poi Teano.
Calibri forti insomma, con cui don Rocco interagisce, col suo carattere ruvido e allo stesso tempo mite, e forse inconsapevolmente imbevendosi della loro “lauretanità” già in quegli anni.
Ma prima di questi nomi c’è un prete che don Rocco conosce subito, appena dopo l’Abate che insieme a don Olindo gli trasmette il “possesso canonico” di Lauro: è don Antonio Lupo.
Quando sia nato non lo so… “O pullastiell” – tale il suo soprannome  -  probabilmente era anziano e con un caratterino forte… Annotava don Rocco in una sua pagina come in quella prima domenica d’ottobre del 1955 don Antonio si era imposto per leggere la supplica di Pompei, e il parroco per non creare problemi aveva accondisceso in silenzio.
Immagino la scena: l’anziano prete che si fa spazio colle braccia, superando il parroco e affannato sale al pulpito a leggere la preghiera mentre don Rocco si rabbuia…
E si giunge alla vigilia di quel natale. Da qualche giorno don Antonio è ammalato. La situazione è ormai agli estremi. E – errore grave per un prete – non ha ancora sistemato gli affari materiali prima di partire. Don Rocco si anima di pazienza e, memore dei precetti propri dei preti, gli confida la reale situazione della sua salute.
Bisogna far presto: occorre pagare le medicine e soprattutto la domestica che accudisce don Antonio…
“I soldi donn’Antò…”… “Addò e tenit?”…
Ma don Antonio era tenace. Eh no… il gruzzoletto proprio non voleva lasciarlo…
Fatto sta che don Rocco la spunta… E viene a sapere dove stanno i soldi…
Faceva freddo quel 24 dicembre del 1955. Ma Don Rocco sale spedito le scale della Collegiata, e fruga dappertutto in quella chiesa che era ufficiata ormai dal solo don Antonio…
Nulla… Ma possibile che don Antonio ormai prossimo alla fine si fosse preso beffe di lui? Don Rocco si gira e rigira in quella gelida chiesa e nota che il tabernacolo della prima cappella, quella del sacro Cuore dall’edicola goticheggiante è chiuso ermeticamente e per di più senza chiave.
Un martello e via, giù di forza… Si… il gruzzolo di don Antonio era nascosto nel tabernacolo!
E’ l’ultimo ricordo di quella chiesa che ho saputo: presto il chierichetto di don Antonio, Ciro Bossone, salirà alla parrocchia a servire messa e la Maddalena chiuderà del tutto. Solo un altro prete e don Antonio dalla morte dell’ultimo canonico (avvenuta verso il 1895) avevano continuato a tenerla aperta.
Tutto finiva. Ma il tabernacolo rotto è ancora lì, senza porticina, da quel 24 dicembre 1955…





lunedì 16 dicembre 2013


Una novena di Natale

Negli anni ’90 in quelle pagine suadenti ma decisamente tormentate di “Credere di credere”  Gianni Vattimo  dichiarava di girare molte chiese di Torino proprio il 16 dicembre, per riascoltare le note della Novena di Natale, senza purtroppo riuscirci.
Anche io oggi, complice un blocco pomeridiano della metropolitana, ho deciso di fare un giro delle Basiliche romane nel tentativo di ascoltare quel motivo antico e caro. Nulla da fare. La Novena di Natale è scomparsa del tutto, almeno sembra.
Tornato poco fa ho riaperto il Cantorino degli anni di Convitto. E una folla di ricordi si è accalcata.
E’ sera: la cappella è nella penombra. Le luci sono soffuse, quasi “silenziate”. Ardono solo i ceri, mossi da un soffio clandestino di vento intrufolatosi dagli alti finestroni. E le fiammelle si muovono gioiose, e quasi pare che con esse si muovano le ali maestose degli angeli capialtare,  di quelli che misteriosamente diresti scappati dallo scalpello del Bernini e lì volati, in quel casermone nolano.
Al di sotto dell’altare la corona d’avvento è già mezza appassita. Tra qualche giorno sarà tolta di mezzo e lascerà spazio alla mangiatoia: una pietra settecentesca scardinata e salvata da uno dei tanti monasteri benedettini che i Savoia avevano soppresso.
Dall’alto della cantoria l’improvvisato organaro fa un miscuglio intollerabile di musiche: Albinoni si alterna a Bach, e quest’ultimo sembra rincorrere Frescobaldi. Ma come sono care ora quelle melodie…
La campana è suonata. In piedi esce il Padre Terrore, come qualcuno lo chiamava. Ha il piviale delle grandi occasioni. Al centro del presbiterio il leggio: Acolitus canit.
“Regem venturum Dominum…”.  Con gli anni quell’inizio della Novena diventava nostro: ci si cominciava a guardare negli occhi, con l’emozione e la consapevolezza che ormai era Natale…
Dal 16 al 20 durava la novena: prima uno, poi due, poi tre, infine quattro cantori, a sottolineare il crescendo della festa e il suo solenne arrivo.
Il polisalmo e il capitolo, l’Inno e le antifone O, quelle di cui mai ci si stancava di leggere la storia dal Martene che per l’occasione era preso dalla biblioteca e portato al piano nobile per essere sfogliato in quelle stesse  stanze che già furono del fondatore del Convitto  nonchè proprietario del libro.
E come voleva la prassi napoletana – ma ormai universale – codificata già dalla Praxis secentesca del Pescara Castaldo, si chiudeva colla benedizione del “Venerabile”.
Terminava così questa novena che altro non era se non un ufficio, un parvum ideato proprio nella Torino che sarà di Vattimo, da un Padre della Missione. Uno dei tanti Parvum: come quello fortunato dell’Immacolata, ascrivibile forse al Rodriguez (ma altri aggiungerebbero nomi diversi) o di ogni santo che si rispetti.
Solo che questa Novena, ed ecco la differenza, è l’ufficiatura che più ha resistito: dal 18 secolo fino agli anni ’70. Entrata prepotentemente nei convitti e nei seminari dia lì è dilagata nelle parrocchie e in ogni casa religiosa, per poi scomparire quasi del tutto.
Non conosco le ragioni, né le voglio sapere. So solo che con essa è scomparsa per me un’aria di festa e un mezzo bello e prezioso per attendere il Natale. Perché almeno qualcuno dei miei amici lo attendeva nella preghiera, e il Rorate che chiudeva la “funzione” esprimeva meglio di ogni parola qui scritta quelle sere invernali che oggi so definire veramente belle. Perché era la Novena di Natale.


Lauro e Umberto Nobile: nuove luci dopo 135 anni…

Ed eccoci a festeggiare il 135° compleanno del generale Nobile ricordando quel 21 gennaio del 1885, il giorno dopo la festa di Lauro. Don ...