giovedì 23 maggio 2013


Il mio 23 maggio

Scinne cu me nfunn' ô mare a truvà chello ca nun tenimm' 'a ccà
 viene cu me e accummencia a capì comm'è inutile stà a suffrì
guarda stu mare ca ce nfonn' 'e paure sta cercann' 'e ce mparà

Attendevamo tanto quel 23 maggio! Da mesi lì al Convitto si contavano i giorni. Alba dopo alba, tramonto dopo tramonto Nola era tutta un cantiere: piazza d’Armi, la Cattedrale e la sua insula… Cominciavano anche a giungere quelli del Vaticano. Fino ad allora li avevamo visti in televisione. Il primo a venire fu Marini, il cerimoniere del papa. Alto e gelido, a stento salutava i provincialotti corsi a fargli la corte. Un vero manager del sacro: “tu a destra, lui a sinistra… inchino e riverenza, tiri doppi e semplici…”. Allora ero già cattivello: mi venne in mente Wilde… cosa sono i riti cristiani se non una tragedia greca rimessa in scena?
Intanto ogni mattinata inesorabilmente ci richiamava ai nostri doveri di alunni. In quel maggio di fine ginnasio non potevamo eludere ancora la consecutio temporum, né potevamo fuggire le versioni di Aristotele e Platone. C’eravamo pure svezzati, e don Andolfi se n’era accorto. Ormai non cercavamo più come manna nel deserto le dritte del Castiglioni o del Rocci. Avevamo adocchiato lo scaffale dei classici giù in biblioteca. Era nascosto con cura, con quella meticolosità e quel sospetto tutto pretesco mascherato dalle virtù della vigilanza e dell’ascesi… Calvino aveva ben da imparare lì a Nola! E ogni pomeriggio chiedevo alla bibliotecaria tanti testi tra cui i classici tradotti. Non ci faceva caso perché era già un anno che consultavo libri in lingua straniera. E il gioco era fatto.

Ah comme se fà a dà turmiento a ll'anema ca vo vula'
si tu nun scinne 'nfunno nun 'o puo' sape'
no comme se fa' a te piglià surtanto o mmale ca ce sta
e po' lassà stu core sulo mmiez' â via

Era ammaliante quel maggio del ’92… Un caldo ormai estivo, e la collina di sant’Angelo era un tripudio di odori e di verde. E il pomeriggio era più allettante se passato su alla rocca di Castelcicala anziché stando chini sui classici… Behbeh (così chiamavamo il nostro docente) avrebbe capito… E allora si saliva spediti, colla fantasia di ginnasiali in cerca della casa di Giordano Bruno… Sarà nato qui? O lì?... Le ricerche d’un tratto finivano lì al torrione… Che panorama! Il vallo a sinistra, il Vesuvio di fronte, Avella alle spalle e alla destra Caserta… Oltre sapevamo che c’era l’immenso mondo da scoprire. Alle cinque puntuale suonava la campana dei Camaldolesi. Forse la muoveva il converso polacco…chissà… I pochi reduci di Montecorona ci davano il segno: bisognava tornare giù, altrimenti quel vicerettore… ah! Varcata la porta carraia i corridoi solenni non aiutavano a rientrare nella compostezza del luogo. La filodiffusione, geniale trovata del nuovo preside, trasmetteva senza posa il duetto di Mia Martini e Roberto Murolo… Doveva piacergli un sacco, se dalle 8 del mattino alle 7 di sera era un continuo echeggiare…
Eneide, canto X: “Aprissi la magion celeste intanto, e del cielo il gran padre in cima ascese del suo cerchio stellato”. Mi piaceva troppo la traduzione di Annibal Caro ed era il mio sollievo durante quei temi virgiliani che implacabili ci attendevano il giovedì… Ormai l’anno stava finendo. Col pio Enea eravamo giunti a quei boschi incantati di Fauni e Ninfe, nemora indigenae Fauni Nymphaeque tenebant… avevamo visto la morte di Eurialo e Niso e pensosi ci eravamo attardati, mentre il nostro docente piangeva leggendo, come già aveva pianto quando aveva declamato le pagine manzoniane di Cecilia. Imparammo allora che le lacrime contraddistinguono i classici… Aveva ragione Peyrefitte: “il faut passer entre les mains des révérends pères”.

Saglie cu 'mme e accummience a cantà nziem' ê nnote ca ll'aria dà
senza guardà tu cuntinua a vulà mentr' 'o viento ce porta là
 addo ce stann' 'e pparole cchiù belle ca te piglieno pe mparà

Finalmente… 23 maggio! Alle sei i primi autobus da Torre Annunziata. Gente di mare, abituata alle veglie… Avevano parcheggiato giù da noi. E la loro voce allegra era più sonora di un concerto di campane! “Ecclesia supplet… Niente preghiera stamattina…” Il pragmatismo del Magnifico Padre Terrore non s’era smentito nemmeno allora… Cis, Cimitile e finalmente Nola… Eccolo… Il Papa era tra noi! Fazzoletti in aria, cori che ricordavano un soldato innamorato che diceva al suo amore “Te voglio bene assai”…
Non ricordo le sue parole. Ma quelle di Tramma sì: “Pietro, che cosa dobbiamo fare?”… Tramma! Lo chiamavano “gemma del clero napoletano”. Cresciuto a Forcella, tra i vicoli caotici, e dalla scuola di Mallardo si era volto poi ai sofismi del brocardo… Un uomo apparentemente freddo con insistenza accorata chiedeva due volte a Pietro cosa si doveva fare…
Già: cosa fare in quel maggio del ’92? La classe politica cadeva a pezzi sotto i colpi di una magistratura che di lì a poco si sarebbe fermata, favorendo o causando o soppiantando un cambiamento epocale. Non passava giorno che non si leggeva di un parlamentare inquisito. Mostri sacri fino al giorno prima che d’un tratto parevano cianfrusaglie da bancarella. E un partito che evocava ancora un passato. Ma non un futuro.
Ma la politica sembrava lontana. Più vivido era ancora il sangue sulle strade… Appena sei mesi prima la strage a Scisciano. E maggio non si era aperto bene. Cinque morti ad Acerra, tra cui una donna incinta e un quindicenne. “Pietro, che cosa dobbiamo fare?” tornava a dire Tramma.

Ah comme se fà a dà turmiente a ll'anema ca vo vulà
si tu nun scinne 'nfunno nun 'o può sapè no

Come tutti i giorni a lungo attesi anche quel 23 maggio passava veloce. Era quasi il tramonto quando arrivai a casa: vi mancavo da quindici giorni… Come tutti appresi la morte di Falcone dal televisore. Chi fosse non lo sapevo. Era già da qualche tempo a Roma, e allora le notizie non si inseguivano colla rapidità odierna. Ma il clamore e la commozione erano in molti, anche se io non capivo tanto. Fu solo seguendo la diretta dei funerali che cominciai a scorgere la gravità del momento. “Sinagoga di Satana”… Uno come Pappalardo non poteva non misurare le parole né contenerle. Sinagoga di Satana: solo la mafia? E in quella sera stessa dei funerali in tutta fretta era eletto Scalfaro. Con un discorso di lì a poco che avrebbe potuto gareggiare con un’omelia. Da far stropicciare il naso. Perché Cesare deve sempre avere la sua parte. Altrimenti si sbilancia tutto. E non è un bene. Meglio Pappalardo, sine dubio.
D’un tratto ci rendemmo conto che qualcosa era cambiato. Andolfi in quelle mattine di fine maggio era pensieroso. Vecchio e caro e venerato maestro che ci aveva imparato il latino spesso parlando solo in latino! Di lì a poco ci avrebbe lasciato, per ricominciare un nuovo ginnasio. “Per domani canto XI dell’Eneide. Lettura e commento, e anche parafrasi”.
Non ci fu nessun commento dell’Eneide quell’indomani.  La ford bianca malandata di monsignor Andolfi non si vide. Era rimasto lì, nei pressi di Pompei, a pregare il rosario per Elisabetta, l’unica e amata sorella che lo accudiva e che quella notte era partita. Il giorno prima ci aveva detto: “Seguite le cronache di questi giorni. Accade qualcosa di notevole”.
Compresi così un po’ meglio la risposta del papa a quella domanda insistente di Tramma… “Pietro cosa dobbiamo fare?” “Siate testimoni” aveva risposto con immediatezza il papa polacco. Sii un testimone: sii attento a non subire mai gli eventi. Non essere indifferente alla vita. Non perderti. Abbi cura di te, perché anche tu avrai un giorno qualcosa da dire.

Comme se fa a te piglià surtanto o mmale ca ce sta
e po' lassà stu core sulo mmiez' â via…

La filodiffusione dei corridoi si spense. Per non riaccendersi più.  Chiudemmo i libri e tirammo alle spalle la massiccia porta dell’aula. In mente ancora i versi di quel canto XI di Virgilio: “Passò la notte intanto, e già dal mare 
sorgea l'Aurora” .
Avevamo quindici anni. Finivamo la V ginnasiale al Vescovile di Nola…






giovedì 2 maggio 2013


Flash mob

Per la terza volta nel giro di un mese mi imbatto in iniziative pastorali di varie diocesi tutte intitolate “Flash mob per…”. Ora è un canto, ieri un ballo e domani sarà un happy hour, giovanile e a tema. E per la terza volta mi sono fermato a riflettere su tali attività. Con un pizzico – ahimè, lo riconosco – di scetticismo. Perché innanzitutto non capisco di per sé molte cose, - vuoi per chiusura mentale ma anche e soprattutto per ignoranza – e perché ho la brutta abitudine di riflettere molto sulle parole, nel loro contesto filologico innanzitutto. E il riflettere molto spesso crea problemi perché la propria idea quasi mai è simile a quella altrui.
Flash mob: mobilitazione lampo, raduno fulmineo. Questi potrebbero essere i concetti che si nascondono dietro ai due termini inglesi, una delle lingue più duttili che esistano. Basta leggere le cronache per sapere la storia del termine, nato ormai dieci anni fa in ambiente anglosassone e ora arrivato in Italia. Nulla di nuovo se una moda ormai decennale arriva da noi così in ritardo, e nulla di nuovo se tutti si entusiasmano per una cosa per altri contesti direi quasi “passata” ma qui nuova, anzi, di più, a la page!
E rileggendo le cronache impariamo anche che il flash mob nasce come “coreografia” quasi sociologica, con vari fini: riunione, aggregazione, manifestazione.
E se ormai il termine è alla moda è ovvio che non poteva sfuggire agli operatori pastorali. Anzi: se per la terza volta in un mese mi imbatto nel termine applicato alla pastorale, allora è in atto l’ulteriore tentativo di monopolizzazione da parte della Chiesa di parole o concetti intramondani.
Nulla di nuovo: la Chiesa, vera esperta di umanità, nel corso del tempo ha saputo dialogare con i contesti culturali più diversi ed estremi. Come dimenticare i primi Apologisti che sfidavano l’impero e i tanti Celso? Anzi Giustino parlava di semina verbi, di spolia Aegyptiorum: tutto di buono la cultura antica aveva era autenticamente cristiano.
Ma un flash mob può paragonarsi, pensando a questo dialogo arduo e nobile colla cultura mondana alle antiche Apologie, o che ne so a Möhler o alle corrispondenze di Giuseppe De Luca?
No, decisamente. Non perché quella era cultura alta e questa sia bassa. Ma perché a mio dire il progetto che anima le varie iniziative citate è completamente diverso. E il termine flash lo dice chiaramente.
Si tratta di una iniziativa lampo, fulminea, rapida nel verificarsi e ancor più veloce nel concludersi.
Mi sono chiesto se il vangelo registri una sorta di flash mob paragonabile a questi in voga oggi nella pastorale.
La scena evangelica del Tabor è molto suggestiva: il Signore rapidamente si trasfigura. Ammantato di luce, dalle vesti più candide della neve, superiori al biancore che ogni lavandaio sa produrre. E in Pietro e Giovanni è forte il desiderio di fermarsi: di più, sostare. Dimorare in tre tende, per contemplare la scena a lungo. Ma il Signore fa capire che il tempo della visione è finito: occorre tornare alla normalità.
Un’ulteriore flash mob è tutto l’apparire del Risorto, interpretato da quel “noli me tangere, perché ancora non sono salito al Padre” e che trova a mio dire il culmine alla tavola di Emmaus: mane nobiscum, quia advesperascit… intrattieniti ancora con noi Signore perché il sole tramonta…
Questi flash mob evangelici lasciano pregustare le cose future. Sono simili ai nostri assaggi culinari, o ai trailers cinematografici. Muovono la fantasia e la curiosità, il desiderio e la conoscenza. E perché lasciano pregustare le cose future hanno anche un evento qualitativo altissimo. Proiettano infatti il tempo umano nel tempo divino, quello della pienezza e della definitività. Il Tabor lascia intravvedere la Passione ed Emmaus lascia pensare al banchetto del regno.
E i nostri flash mob? O differens receptio!, cantano ogni pomeriggio i frati del Santo Sepolcro.
C’è a mio dire una differenza forte. Quella di non essere eventi significativi ma momenti normali di una pastorale ormai stanca che corre lungo i binari disimpegnati di una eccessiva mondanizzazione.
Può un canto o un ballo di frati o l’invasione rapida di una strada esaurire l’evangelizzazione? Qual è la qualità del messaggio che si vuole trasmettere? Confesso di non capirlo né saperlo. E vorrei invece essere sinceramente illuminato su tali cose.
Ma non trovo risposte. E allora sorge il dubbio di una pastorale ripeto improvvisata, che si accontenta di poco e che rincorre il mondo lasciandosi ammaliare ma senza trasmettere originalità. Perché l’improvvisazione è proprio quando si progettano attività che dopo non lasciano nulla di concreto, quando si è animati dal fare ad ogni costo qualcosa purchè la si faccia, e purchè l’ultima agenzia di news ne parli, con tanto di interviste degli organizzatori e video su youtube da rivedere alla pizzata in casa degli amici.
Che alternativa offrire? Per me rimane sempre affascinante Paolo quando parla di stoltezza cristiana e sapienza mondana. Le pagine esegetiche si sprecano, e non saprei nemmeno interpretarle. Ma la stoltezza e la sapienza trovano in lui la sintesi nella croce. Ecco: io mi attendo una pastorale che punti all’essenziale, a ciò che più conta. Alla croce. Alla fatica della predicazione, quella del contatto vivo con le persone e che si intrattiene, anzi indugia davanti al silenzio della croce.
E mi attendo una pastorale che punti in alto e oltre l’alto: al cielo. A quel tempo ultimo verso cui il nostro tempo è diretto.
Mi rendo conto che sono pensieri marginali di un uomo marginale come me. E la marginalità è sempre un problema: e perché scomoda, in quanto si conforma poco al pensiero dominante, e perché decisamente più solida (meglio dire pesante) e quindi difficilmente galleggiante nella Liquid modernity.

Lauro e Umberto Nobile: nuove luci dopo 135 anni…

Ed eccoci a festeggiare il 135° compleanno del generale Nobile ricordando quel 21 gennaio del 1885, il giorno dopo la festa di Lauro. Don ...