mercoledì 10 aprile 2013


La speranza. Antidoto contro le disillusioni? O illusione essa stessa? Un tirare avanti, a sopravvivere? E’ la virtù più delicata che ci sia, la più fragile, la più equivoca. Perché facilmente confusa coll’ostinazione o la rassegnazione. Di essa si può dire tutto e nulla. Da dove impararla? Dove scorgerla? Nel lavoro paziente del contadino. Quando è inverno. Allora la natura tace. Ma lui si leva dal sopore della notte e corre al campo. Paziente scorge le nuvole, saggia il freddo. E con benevolenza guarda la terra. Sa che essa fiorirà. Sa che tra poco, non si sa quando, ma tra poco tutto germoglierà. Ecco la speranza: attesa della certezza del cambiamento.

martedì 9 aprile 2013


Giovedì santo.
Notte. Non silenziosa. Le auto sfrecciano sulla tangenziale romana. Una sirena di polizia rincorre fino a confondersi quella appena passata dell’ambulanza. Di lontano le musiche del Tiburtino si mischiano ancora coi tanti vocii dei locali. Questo leggero vento primaverile sembra non aiutare il bisogno di silenzio che stasera avverto con più desiderio.
Guardo il cielo romano. I bagliori dei lampioni lo tingono di rosso, il tipico colore della città serale. E il cuore rincorre con nostalgia le immagini di questa misteriosa sera.
Che contrasto tra i rumori e le immagini della città se paragonati ai momenti decisivi di Gerusalemme. In questi esatti momenti Tu pregavi, e gridavi, e sospiravi, e offrivi.
La tua passione iniziava dirompente. Preparata da tempo, misterioso disegno di amore che ora più non trattieni. Tra forti grida e lacrime.
Non so se avrei vegliato con te, non so se avrei come Pietro ceduto al sonno. Ma questo rimanere attardato ora alla finestra mi fa pensare che forse avrei cercato almeno un po’ di farti compagnia.
Mi rendo conto che la tua notte è simile alle nostri notti. Anche allora si facevano cento e mille cose: ci si divertiva per la pasqua, o si tramava o chissà cosa.
I rumori della città stanno diventando la mia preghiera. Il ricordo di quel giardino mi riconduce con impeto a questo Tiburtino. Qualcuno penserà a te? Non lo so. Si ricorderà la tua notte?
Si, si ricorderà sempre, ogni sera. Se ne rammenterà il povero che torna verso i sottopassi, per avvolgersi nei cartoni e dormire. Con te piangerà quell’immigrato che oggi ha mangiato e domani, chissà…
La tua notte è la nostra notte. Ogni notte è giovedì santo. E così ancora mi fermo, e ti chiedo: ricordati delle miserie umane, tu che hai sofferto e amato. Arricchisci queste notti, così strane, così umane.
Ancora mi soffermo alla finestra. Immerso in questo amoroso mistero.

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