L’antica
cattedra dantesca di Lauro
E anche
quest’anno, come ogni estate, rileggo la Divina Commedia. Fu a Lauro, in un’
estate della prima metà degli anni ’90 che mi innamorai del Poema immortale.
Anzi, a essere preciso, fu a Fontenovella.
Ormai sono pochi
a sapere quanto allora avveniva a Fontenovella, e perciò, dopo ormai un quarto
di secolo, è giusto rievocare i fatti.
Non
meravigliatevi: a Fontenovella c’era una “Casa di Dante”, uno di quei luoghi di
studio del poema che dall’800 erano nati in varie parti d’Italia.
La “Casa di
Dante” era il bar di Saverio Pesapane, alias Ceccheniello.
Era una sala
senza pretese: tre tavoli per lo scopone, vetri incrostati di escrementi di
mosche e pareti grigie per il fumo ormai impregnatosi fin dentro la malta del
muro da poter gareggiare con uno dei posti senza storia dell’esilio di Carlo
Levi.
Solo nel giugno
del ’90 Ceccheniello si decise a restaurare il locale, e in omaggio ai mondiali
italiani, fece mettere a fianco della presuntuosa insegna di “Bar Nazionale” il
logo dei giochi calcistici.
Non solo: in un
angolo comparvero persino due videogiochi, che presto divennero il richiamo per
noi ragazzini. E fu così che oltre a spendere tante duecento lire, ci
accostammo con curiosità e anche timidezza davanti a quegli adulti che erano di
casa lì.
Ed è allora che
sentimmo i borbottii dello Spagnuolo, sempre con il suo sigaro: una fumata, uno
sputo – a terra ovviamente – e un suono indefinito della voce.
E a vedere il
volto rassegnato di mio zio Richino , alias Enrico Aschettino, che aveva perso
l’ennesima partita e che per non dirlo alla moglie Concetta (che minimo
l’avrebbe mandato a letto senza cena!), comprava delle caramelle per
addolcirla.
E in un angolo
c’era lui, il protagonista di questa storia, Carlo Ferraro con al fianco il cognato, Francesco Rega, alias Ciccio e
Casola. Due caratteri diversi se non opposti: Ciccio era abile parlatore,
pronto alla battuta e all’esagerazione, capace di trainare l’attenzione di
tutti con risate e fatti da narrare.
Carlo Ferraro
era diverso. Ma intanto: pochi lo conoscevano con il nome e il cognome reale.
Per tutti era semplicemente mast’Carluccio, capo di una piccola impresa di
costruzioni.
O mast’ era di
poche parole: sobrio, sempre gentile, amava ascoltare divertito gli alterchi
dei giocatori ma interveniva poche volte. Si sarebbe detto quasi di un tipo
distratto, se non pensieroso, dallo sguardo a volte fisso, a volte smarrito
chissà dove.
Unico gesto
proverbiale era la mano che a un certo punto, raggiunto il taschino della
camicia, tirava fuori il pacchetto di Ms. Allora si che Carluccio si muoveva:
ampie volute col fumo che si intaccava alle pareti, ai bicchieri, ai vestiti.
Fu un giorno
d’estate di quegli anni ’90 che scoprii chi era realmente mast’Carluccio.
Stavo aspettando
che uno si sbrigasse a cedermi il posto al videogiochi (Clemente? Nellino? Boh…
ma questi eravamo…) che Carluccio mi chiese: “Ma mo’ che classe fai?”. Quando
gli dissi che avrei iniziato il terzo anno del Liceo, Carlo aspirò ancor più
generosamente la sua sigaretta e un sorriso rianimò il volto affusolato…
“Allora studierai Padre Dante”, aggiunse emanando fumo e sorriso.
Rimasi sorpreso
dall’epiteto dato al Poeta: a chiamarlo così’ era stata una certa generazione
di commentatori che aveva intravisto nel fiorentino – insieme a san
Tommaso - il massimo esegeta della teologia .
Il tempo per
riflettere fu poco perché già Carluccio aveva iniziato: “Nel mezzo del cammin
di nostra vita…”. E tutti eravamo rimasti fermi, quasi attoniti ad ascoltarlo.
Declamava e sorrideva, sorrideva e declamava.
Spagnuolo smise
di borbottare e sputare e lo guardò – dai suoi occhiali così spessi - dritto negli occhi. Richino aveva capito….
Proprio nulla aveva capito! E allora Carluccio si girò verso mio zio e gli
disse: “Richì! Stamm a sèntere… Dante s’aveva pers mmiezz a nu vuosc e nun
sapev comm’ascì…”. E Richino iniziò a chiedere spiegazioni, e mast’Carluccio a
darne a josa.
Era la prima
Lectura Dantis a cui assistevo e a Lauro per di più!
E così ogni giorno
Carluccio declamava una terzina o indugiava su un personaggio o su un episodio
del suo Poeta, coinvolgendo tutti: giovani, vecchi, improvvisi avventori e
fruttivendoli di passaggio.
Da dove questa
passione per Dante?
Dalla sua
insonnia, che egli placava non con il televisore ma stando chino sui libri
della Commedia che la figlia Maria – ormai trasferitasi ad Alba – aveva
lasciati nel palazzo ottocentesco di famiglia.
Stasera mi è
ricomparso nei ricordi, leggendo il canto di Ulisse… Era il suo personaggio
preferito, ed era la terzina che chiudeva ogni sua Lectura: “Considerate la
vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti”.
E lo rivedo così,
amabile e caro Carluccio, nel bar ormai chiuso, mentre sollevava la mente e la
fantasia di noi tutti in quelle torride estati.
Non ho mai
rivissuto più l’emozione di una Lectura dantesca a Lauro. Perché ciascuno di
noi ormai sta fermo, “proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra i rocchi
dello scoglio”. E perciò “mi ridoglio, quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi”.
Sì, vidi una Lauro che a raccontarla ora sembra mitica. Invece era realtà. Anzi.
Era poesia divenuta realtà.