martedì 10 luglio 2018


L’antica cattedra dantesca di Lauro

E anche quest’anno, come ogni estate, rileggo la Divina Commedia. Fu a Lauro, in un’ estate della prima metà degli anni ’90 che mi innamorai del Poema immortale. Anzi, a essere preciso, fu a Fontenovella.
Ormai sono pochi a sapere quanto allora avveniva a Fontenovella, e perciò, dopo ormai un quarto di secolo, è giusto rievocare i fatti.
Non meravigliatevi: a Fontenovella c’era una “Casa di Dante”, uno di quei luoghi di studio del poema che dall’800 erano nati in varie parti d’Italia.
La “Casa di Dante” era il bar di Saverio Pesapane, alias Ceccheniello.
Era una sala senza pretese: tre tavoli per lo scopone, vetri incrostati di escrementi di mosche e pareti grigie per il fumo ormai impregnatosi fin dentro la malta del muro da poter gareggiare con uno dei posti senza storia dell’esilio di Carlo Levi.
Solo nel giugno del ’90 Ceccheniello si decise a restaurare il locale, e in omaggio ai mondiali italiani, fece mettere a fianco della presuntuosa insegna di “Bar Nazionale” il logo dei giochi calcistici.
Non solo: in un angolo comparvero persino due videogiochi, che presto divennero il richiamo per noi ragazzini. E fu così che oltre a spendere tante duecento lire, ci accostammo con curiosità e anche timidezza davanti a quegli adulti che erano di casa lì.
Ed è allora che sentimmo i borbottii dello Spagnuolo, sempre con il suo sigaro: una fumata, uno sputo – a terra ovviamente – e un suono indefinito della voce.
E a vedere il volto rassegnato di mio zio Richino , alias Enrico Aschettino, che aveva perso l’ennesima partita e che per non dirlo alla moglie Concetta (che minimo l’avrebbe mandato a letto senza cena!), comprava delle caramelle per addolcirla.
E in un angolo c’era lui, il protagonista di questa storia, Carlo Ferraro con al fianco  il cognato, Francesco Rega, alias Ciccio e Casola. Due caratteri diversi se non opposti: Ciccio era abile parlatore, pronto alla battuta e all’esagerazione, capace di trainare l’attenzione di tutti con risate e fatti da narrare.
Carlo Ferraro era diverso. Ma intanto: pochi lo conoscevano con il nome e il cognome reale. Per tutti era semplicemente mast’Carluccio, capo di una piccola impresa di costruzioni.
O mast’ era di poche parole: sobrio, sempre gentile, amava ascoltare divertito gli alterchi dei giocatori ma interveniva poche volte. Si sarebbe detto quasi di un tipo distratto, se non pensieroso, dallo sguardo a volte fisso, a volte smarrito chissà dove.
Unico gesto proverbiale era la mano che a un certo punto, raggiunto il taschino della camicia, tirava fuori il pacchetto di Ms. Allora si che Carluccio si muoveva: ampie volute col fumo che si intaccava alle pareti, ai bicchieri, ai vestiti.
Fu un giorno d’estate di quegli anni ’90 che scoprii chi era realmente mast’Carluccio.
Stavo aspettando che uno si sbrigasse a cedermi il posto al videogiochi (Clemente? Nellino? Boh… ma questi eravamo…) che Carluccio mi chiese: “Ma mo’ che classe fai?”. Quando gli dissi che avrei iniziato il terzo anno del Liceo, Carlo aspirò ancor più generosamente la sua sigaretta e un sorriso rianimò il volto affusolato… “Allora studierai Padre Dante”, aggiunse emanando fumo e sorriso.
Rimasi sorpreso dall’epiteto dato al Poeta: a chiamarlo così’ era stata una certa generazione di commentatori che aveva intravisto nel fiorentino – insieme a san Tommaso  -  il massimo esegeta della teologia .
Il tempo per riflettere fu poco perché già Carluccio aveva iniziato: “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. E tutti eravamo rimasti fermi, quasi attoniti ad ascoltarlo. Declamava e sorrideva, sorrideva e declamava.
Spagnuolo smise di borbottare e sputare e lo guardò – dai suoi occhiali così spessi -  dritto negli occhi. Richino aveva capito…. Proprio nulla aveva capito! E allora Carluccio si girò verso mio zio e gli disse: “Richì! Stamm a sèntere… Dante s’aveva pers mmiezz a nu vuosc e nun sapev comm’ascì…”. E Richino iniziò a chiedere spiegazioni, e mast’Carluccio a darne a josa.
Era la prima Lectura Dantis a cui assistevo e a Lauro per di più!
E così ogni giorno Carluccio declamava una terzina o indugiava su un personaggio o su un episodio del suo Poeta, coinvolgendo tutti: giovani, vecchi, improvvisi avventori e fruttivendoli di passaggio.
Da dove questa passione per Dante?
Dalla sua insonnia, che egli placava non con il televisore ma stando chino sui libri della Commedia che la figlia Maria – ormai trasferitasi ad Alba – aveva lasciati nel palazzo ottocentesco di famiglia.
Stasera mi è ricomparso nei ricordi, leggendo il canto di Ulisse… Era il suo personaggio preferito, ed era la terzina che chiudeva ogni sua Lectura: “Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti”.
E lo rivedo così, amabile e caro Carluccio, nel bar ormai chiuso, mentre sollevava la mente e la fantasia di noi tutti in quelle torride estati.
Non ho mai rivissuto più l’emozione di una Lectura dantesca a Lauro. Perché ciascuno di noi ormai sta fermo, “proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra i rocchi dello scoglio”. E perciò “mi ridoglio, quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi”. Sì, vidi una Lauro che a raccontarla ora sembra mitica. Invece era realtà. Anzi. Era poesia divenuta realtà.

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